Sin dai tempi più antichi la salute è il tallone d’Achille di ogni individuo. Persino i più impavidi, di fronte ad un malessere piccolo o serio, si agitano e si rivolgono tempestivamente al proprio dottore di fiducia. In un’epoca in cui la soglia del dolore si è ridotta ai minimi termini viene spontaneo chiedersi: tutti questi esami saranno veramente utili? Le terapie proposte hanno degli effetti collaterali degni di nota che vengono “omessi”? Cosa farebbero i medici se fossero al nostro posto?
Antidepressivi, ansiolitici, statine, broncodilatatori, terapie post-menopausali. Questi sono solo alcuni dei farmaci di cui sentiamo parlare molto spesso e il cui utilizzo, se non addirittura abuso, sta diventando sempre più frequente. Quando si tratta della salute infatti, si è tutti più vulnerabili e si spera nella più immediata guarigione, affidandosi al proprio medico. In questi casi viene spontaneo chiedersi: come si comporterebbe se fosse al nostro posto? Queste nostre “preoccupazioni” sono ancora maggiori in vista di un’operazione complicata o di una patologia molto delicata, difficile da eradicare e/o da gestire.
Prendiamo ad esempio la depressione, definita come “Il grande male del XXI secolo”. Essa è una patologia psichiatrica caratterizzata generalmente dalla progressiva riduzione a livello del nostro sistema nervoso centrale di noradrelina e la serotonina, le “molecole del buon umore”. È possibile suddividere questa patologia in 3 grandi macro-aree, basandosi sugli aspetti clinici:
- Depressione reattiva (60% dei casi): accompagnata da ansia, disturbi somatici, anedonia (ndr. perdita di interesse in attività prima piacevoli) e senso di colpa;
- Depressione maggiore o endogena (25% dei casi): presenta anomalie del sonno, delle attività motorie, della libido e dell’appetito che possono instaurarsi ad ogni età. Si è scoperto che i nostri geni hanno un ruolo importante nella sua manifestazione clinica.
- Disturbo affettivo bipolare (15%): simile alla sindrome maniaco-depressiva, con caratteristica alternanza di stati manicali e depressivi.
La depressione è comunemente trattata con farmaci chiamati IMAO (ndr.Inibitori Irreversibili delle MAO) come ad esempio iproniazide, isocarbossazide, fenelzina, piuttosto che i TCA (ndr. antidepressivi triciclici) come imipramina, amitriptilina, desipramina che agiscono andando a bloccare il reuptake di serotonina e noradrenalina. Questi farmaci fanno in modo che, le due sostanze, rimangano più a lungo nello spazio sinaptico così da poter esprimere al meglio la loro funzione e stabilizzare l’umore del paziente.
Il metabolismo di queste sostanze è molto variabile a causa dell’ elevato polimorfismo genetico, ognuno di noi le può metabolizzare velocemente o lentamente a seconda del suo corredo genetico, e poiché l’emivita può risultare abbastanza lunga, si possono manifestare più o meno frequentemente effetti collaterali come sedazione, ipotensione posturale, secchezza delle fauci, offuscamento della vista e costipazione.

Dunque ne vale realmente la pena? La dott.ssa Joanna Moncrieff, psichiatra presso il London University College, dichiara:
“Esercito nel campo della psichiatria da oltre 20 anni, e per la mia esperienza gli antidepressivi non fanno nulla di buono. Non li assumerei in nessuna circostanza, nemmeno se fossi a rischio di suicidio. Ritengo la depressione una reazione estrema alle circostanze, ed il modo migliore per uscirne è di eliminare le cause. Gli antidepressivi sono delle sostanze psicoattive, che alterano la mente come fanno l’alcool o la cannabis ed io ho sempre pensato che se fossi stata depressa avrei voluto conservare tutta la mia lucidità e le mie facoltà per venir fuori dal pantano e non il ritrovarmi immersa in una nebbia farmacologica della quale non avrei nemmeno capito gli effetti” – Dott.ssa Joanna Moncrieff
Discorso analogo quello del dottor Guy Meadows, specialista del sonno e fondatore della “Scuola del sonno”, il quale considera i sonniferi come degli strumenti molto pericolosi che portano il paziente a convincersi di non riuscire a dormire senza la loro assunzione. Questi farmaci infatti agiscono sovvertendo l’architettura del sonno, riducendo la fase REM, necessaria per svegliarci riposati e per cominciare bene la giornata.
Se invece facciamo riferimento all’utilizzo dei più comuni broncodilatatori, Mike Thomas, specialista in medicina della respirazione e terapie dell’asma presso la University of Southampton, sottolinea come anche gli inalatori antiasmatici sarebbero responsabili del fenomeno di “sudditanza psicologica al farmaco”, tanto da fare entrare in panico coloro che non li hanno a portata di mano; egli afferma:
“L’uso quotidiano aumenta il rischio di attacchi gravi e gli effetti collaterali degli alti dosaggi di steroidi includono l’assottigliamento delle ossa, la facilità di ecchimosi ed un aumentato rischio di diabete e di pressione alta. E’ necessario aiutare il paziente a gestire l’ansia perchè una volta che essi vivono meno drammaticamente gli episodi di asma, ricorrono meno agli inalatori” – Mike Thomas
Altro tema molto dibattuto tra gli esperti è quello dell’utilizzo delle statine (ad esempio lovastatina, simvastatina, pravastatina, atorvastatina ecc.) che rientrano nella categoria degli anti-dislipidemici. Queste agiscono inibendo la sintesi endogena colesterolo bloccando l’attività dell’enzima idrossi-metaril-glutaril-COA-reduttasi, tappa fondamentale per la sua formazione all’interno delle nostre cellule. Il loro largo utilizzo si deve al fatto che non solo bloccano questa tappa necessaria alla sintesi dei grassi (ndr. anche indirettamente mediante riduzione dei suoi precursori, come geraniolo) ma anche favorendo la degradazione delle LDL, delle particolari proteine plasmatiche che vengono spesso definite colesterolo “cattivo”.
Sicuramente l’utilizzo delle statine è molto aumentato negli ultimi anni, tanto che molti esperti le hanno definite dei veri e proprio farmaci salvavita in quanto agiscono migliorando la funzione endoteliale, così da controllare le risposte infiammatorie e contribuire in generale a stabilizzare (ed eventualmente ridurre) le placche ateromasiche con azione antitrombotica: in altre parole agiscono in pratica come spazzini nelle nostre arterie.
Non è tuttavia dello stesso parere il Professor Kevin Channer, cardiologo presso il Claremont Hospital di Sheffield il quale sostiene che prima di prescrivere statine per diminuire i rischi di infarto, sia doveroso effettuare un’accurata valutazione del quadro diagnostico complessivo del paziente in esame in modo da ponderare il rapporto beneficio-rischio. Sebbene da una parte esse possano ridurre il rischio di infarto del 30%, dall’altro sono associate a condizioni patologiche quali rash cutanei, perdita di concentrazione, disturbi del sonno, epatite, disturbi gastrointestinali (nausea, vomito e diarrea) e rabdomiolisi.
Secondo questo specialista spesso, in un paziente in buona salute, sarebbe sufficiente eliminare i fattori di rischio come fumo, diabete, carne rossa, ipertensione e praticare il più possibile attività fisica.
Nel campo dell’urologia, molto controverso è l’utilizzo del PSA (ndr. Antigene Prostatico Specifico) come marker tumorale: comunemente usato per diagnosi di patologie neoplastiche alla prostata, secondo Richard Ablin, professore di patologia presso l’University of Arizona College of Medicine, sarebbe attualmente usato in modo eccessivo ed errato. Nonostante sia un marker molto importante, in quanto è sicuramente specifico per la prostata, però bisogna considerare che il suo corretto utilizzo va fatto nella valutazione della riuscita di un intervento (follow-up post operatorio) mentre sarebbe poco specifico per diagnosticare una neoformazione.
Cerchiamo di chiarire il concetto: normalmente il valore di PSA in un individuo in buona salute non dovrebbe superare i 4 ng/ml, ma questo valore in realtà tende a variare in corrispondenza di molti fattori come invecchiamento, banali infiammazioni e procedure mediche invasive, come colonscopie. È quindi errato formulare una diagnosi di tumore solo guardando un valore di PSA sopra i 4 mg, ma questo risultato va affiancato, in caso di familiarità per esempio, ad un esame rettale di routine. Invece, dopo un intervento, è importante valutare i valori del PSA in quanto, se dovessero iniziare nuovamente a risalire, sarà il caso di svolgere ulteriori approfondimenti perché potrebbe essere spia di una recidiva post intervento o di un processo metastatico in atto.
Quanti di noi non hanno mai fatto una radiografia in vita propria?
Ben pochi! Troppo spesso ormai quando i pazienti lamentano dolori, i medici li mandano a fare delle “lastre”. Il problema è che e si finisce spesso con una diagnosi di artrite che porta i pazienti a perdere il controllo e diventare vittime: assumono anti-infiammatori (con tutti gli effetti collaterali gastrointestinali che questi farmaci causano), si allarmano all’idea di fare attività fisica e la loro vita si “impoverisce”.
Chris Walker, chirurgo ortopedico presso il Liverpool Bone and Joint Centre, afferma:
“A meno che non ci siano sintomi allarmanti di artrite – tipo dolore costante o notturno – io eviterò di far fare delle lastre. Con l’età la maggior parte della gente ha qualche problemino alle articolazioni: la cosa migliore da fare è fare del movimento. Le giunture amano il movimento, quello che le danneggia sono la corsa ed i salti ma camminare, nuotare ed andare in bicicletta riducono il dolore e la rigidità e rallentano il manifestarsi dell’artrite. Mantenendosi attivi si perde peso, cosa che è di grandissimo aiuto, e non si finisce depressi perché si è troppo impegnati con la vita” – Chris Walker

Nonostante le radiografie rimangano sempre un ottimo strumento diagnostico, bisogna però considerarne sempre gli “effetti collaterali”: le radiazioni ionizzanti causano un danno (diretto o indiretto) alle nostre cellule in proliferazione. Le fasi più colpite del ciclo cellulare sono la fase Gzero, la fase di inizio, con malformazioni a carico del nucleo e degli organuli cellulari, e la fase M, fase di mitosi cellulare dove la cellula si divide per formare le due cellule figlie.
Ne derivano danni al DNA con effetti genotossici e citotossici con conseguente morte della cellula per apoptosi o, in extremis, necrosi. In altre parole quando la cellula non può più ripararsi in nessun modo muore causando infiammazione dei tessuti sani circostanti, ma prima di fare ciò può anche esserci una trasformazione del DNA con mutazioni, delezioni, inversioni di base che se non vengono riparare sono causa di neoplasie di diverso genere.
Quanto detto riguardo le radiazioni ionizzanti, e gli effetti causati sulle nostre cellule, può essere riassunto in due grandi categorie:
- Effetti stocastici detti effetti del “tutto o nulla”. Non richiedono una dose soglia per manifestarsi e si palesano secondo uno schema di tipo probabilistico. Il fatto di essere colpiti da quella dose non rende l’effetto più grave ma più probabile. I danni nascono a distanza di molti anni dall’irradiazione con effetti irreversibili sia sule cellule gametiche che somatiche;
- Effetti non stocastici: sono effetti deterministici. Esiste una relazione dose-effetto, quindi più mi espongo più sarò in pericolo, hanno un periodo di latenza più corto (si manifestano in ore o settimane) e sono reversibili. Il danno è di tipo citotossico, dunque interessa solo le cellule e non i gameti (ndr. minore il rischio di tramandarlo alle cellule figlie).
Detto ciò, il nostro consiglio è quello di ascoltare sempre più pareri, essere molto scrupolosi ed evitare di credere alle notizie “per sentito dire”. Non fidiamoci di tutto quello che sentiamo in televisione o che leggiamo su qualche rivista di poco spessore: la salute è il bene più prezioso che abbiamo! Dunque prendiamoci cura di noi stessi e soprattutto facciamoci curare e affidiamoci ad un “bravo” specialista!
“Il medico saggio deve essere esperto tanto per prescrivere un rimedio quanto per non prescrivere nulla” -Baltasar Gracián y Morales