Si stima che il 10% della popolazione degli Stati Uniti sia stata affetta, prima o poi, dal Disturbo da Stress Post-Traumatico. Cosa ha fatto la Medicina per questi pazienti particolari? Un recente studio apre nuovi scenari sulla possibilità di eliminare i ricordi traumatici dal cervello.
Più di trentuno milioni di americani hanno una pessima qualità di vita a causa di una particolare patologia psichiatrica: il Disturbo da Stress Post-Traumatico (DPTS). Sotto questo acronimo vengono raggruppate una serie di forti sofferenze psicologiche che conseguono ad un evento traumatico, catastrofico o violento. La diagnosi necessita che i sintomi siano sempre conseguenza di un evento critico, ma questo non genera automaticamente questo turba psichica, solamente il 7,8% delle vittime di un trauma di qualsiasi genere sviluppano tale disturbo. È denominato anche “nevrosi da guerra” proprio perché inizialmente riscontrato in soldati vittime croniche di traumi psichici e fisici di notevole impatto. Le donne, i bambini, gli adolescenti ed i soccorritori sono molto più soggetti a sviluppare DPTS in seguito all’esposizione a un trauma.
I pazienti si possono classificare in tre categorie:
- Primari: vittime dirette dell’evento traumatico.
- Secondari: testimoni dell’evento traumatico o parenti della vittima.
- Terziari: soccorritori che si trovano a lavorare con le precedenti due categorie.
Esiste una “triade sintomatologica” che caratterizza la maggior parte dei pazienti, ma esiste un’enorme variabilità interindividuale poiché il trauma viene metabolizzato in maniera unica ed irripetibile da ciascun paziente:
- Intrusioni: sogni, flashback, riproposizioni continue di vissuti e traumi, episodi dissociativi, allucinazioni.
- Evitamento: la tendenza a tenersi lontano da luoghi, persone, immagini, situazioni, stimoli che possano in qualche modo venir associati al trauma. A questi possono associarsi un’attenuazione della reattività generale e dell’affettività, un calo di interesse (ndr. definito come “numbing“).
- Hyperarousal (ipereccitazione psicofisiologica): difficoltà ad addormentarsi, irritabilità, scoppi d’ira, difficoltà a concentrarsi ed ipervigilanza.
Il più delle volte il paziente colpito cerca “sollievo” con abusi di alcool, droga, farmaci. A questa precaria situazione emotiva e psicologica sono associati sensi di colpa per quello che è successo o come ci si è comportati o per il non aver potuto evitare l’evento traumatico. Spesso, sono compresenti anche forme medio-gravi di depressione e/o ansia generalizzata.
La scienza ed il progresso medico hanno collaborato per cercare di trovare una soluzione che possa garantire, a questi pazienti, una qualità di vita tollerabile dopo un qualsivoglia trauma. È stata sviluppata una tecnica per marcare alcuni ricordi specifici nei topi e cancellarli con la luce, rendendo possibile la prospettiva di eliminare il DPTS dall’elenco delle emergenze psichiatriche. La ricerca, guidata dalla University of California, ha mostrato interessanti risultati: la teoria vuole che l’apprendimento coinvolga l’elaborazione nella corteccia e che questa invii le informazioni, tramite una fitta rete di fibre nervose, all’ippocampo. Questo a sua volta rielabora e fissa questo schema di attività durante il riposo; il consolidamento delle informazioni consente all’individuo di rivivere l’evento migliaia di volte, volontariamente oppure no.
Per capire come avviene questo processo di “salvataggio dati”, gli scienziati hanno usato l’optogenetica: una tecnica che consente di studiare l’attività nervosa grazie alla luce. Lo studio sui topi è stato possibile poiché le cellule nervose delle cavie sono state geneticamente modificate per emettere una fluorescenza durante la loro attivazione, grazie alle proteine H2B-GFP e la pompa protonica Arch. Questo ha permesso il continuo monitoraggio dei neuroni coinvolti nel processo della formazione di un ricordo. La fase subito successiva al monitoraggio era atta a trovare un modo per inattivare le cellule responsabili del consolidamento del ricordo oppure quelle responsabili della sua reiterazione. Questo è stato possibile grazie alla scoperta che le cellule nervose possono essere spente attraverso la luce emessa da un cavo a fibre ottiche inserito nel cranio delle cavie.

Per poter completare lo studio bisognava mettere insieme queste due scoperte rivoluzionarie; in che modo è stato possibile? I topi sono animali curiosi, amanti dell’esplorazione; sfruttando questa loro peculiarità, i ricercatori, sono riusciti a traumatizzare i topi in particolari zone della gabbia, lasciando che questi associassero a quell’area della gabbia un trauma. Questi, dopo lo shock, si sarebbero tenuti alla larga da qualsiasi luogo evocasse il ricordo di esso. Grazie all’optogenetica, gli scienziati hanno riconosciuto così le cellule che si sono attivate nella corteccia e nell’ippocampo durante l’apprendimento ed il consolidamento del ricordo del trauma. Quando il fascio di luce ha spento le cellule ippocampali, risultate attive durante il monitoraggio precedente, i topi non riuscivano più ad aver paura della zona della gabbia correlata al trauma. A sostegno di questa rivoluzione scientifica, gli scienziati, nell’abito dello stesso progetto, hanno inattivato altre cellule ippocampali, stavolta però quelle non attive (cioè alcune delle cellule che non avevano emesso la fluorescenza), col risultato che il ricordo del trauma rimanesse completamente intatto.
La biologia ci insegna che non esistono funzioni ridondanti nel nostro cervello, scontrandosi così contro la possibilità di manipolare l’enorme archivio della memoria di ognuno di noi. Lo scopo dei ricordi è quello di far evolvere le funzioni cognitive. Facciamo un esempio banale: un bambino non sa cos’è il fuoco finché non si brucia ed impara a starne lontano, successivamente imparerà ad usarlo a proprio vantaggio con cautela. Analogamente potremmo dire che i traumi, anche se del tutto accidentali, potrebbero servire al cervello per “arricchirsi” ai fini della sopravvivenza.
La domanda è: avete più paura di ricordare oppure di dimenticare?