Il dolore cronico è una condizione che affligge il 15% della popolazione adulta. Si stima che negli Stati Uniti incida sulla spesa sanitaria per un valore di circa 600 miliardi di dollari l’anno, arrivando a superare la somma dei costi di infarto, cancro e diabete.
Si impone quindi la necessità di individuare nuovi farmaci analgesici più efficaci e con meno effetti collaterali rispetto agli attuali presenti sul mercato.

L’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore definisce il dolore cronico come un dolore “che si protrae oltre il normale decorso di una malattia acuta o al di là del tempo di guarigione previsto”. Protraendosi nel tempo, il dolore cronico può causare effetti negativi gravi a livello psicologico e sulla qualità di vita. La Wisconsin Medical Society lo definisce come: dolore persistente, continuo o ricorrente di durata superiore a 6 settimane o di intensità sufficiente a produrre effetti negativi sul benessere del paziente, sui livelli funzionali e sulla qualità di vita.
A differenza del dolore acuto, quindi non sempre costituisce un segnale della presenza di stimoli nocivi o di danno ai tessuti, ma può determinare pesanti conseguenze sulla vita di relazione e sugli aspetti psicologici e sociali della persona. In particolare può causare:
– riduzione dell’attività fisica fino all’immobilità;
– nutrizione inadeguata con calo ponderale;
– disturbi del sonno;
– dipendenza dai farmaci;
– isolamento sociale (problemi coniugali, disoccupazione, problemi finanziari, ansia, paura e depressione fino ad arrivare, in qualche caso, al suicidio).
Il dolore è perciò molto più di un sintomo: può essere considerato una malattia che va controllata perché può creare un circolo vizioso che prolunga e peggiora il dolore stesso.

Numerosi studi genetici hanno individuato nei canali del sodio voltaggio-dipendenti Nav1.7 un target di farmaci analgesici.
I canali Nav sono una famiglia di proteine transmembrana deputata alla regolazione delle proprietà elettriche della cellula. Mutazioni di tipo gain of function a carico dei geni che codificano per questi canali determinano la presenza di neuropatie ereditarie, mentre, al contrario, mutazioni che ne determinano una perdita di funzione sono responsabili di forme congenite di indifferenza al dolore.
Le differenze genetiche individuali a carico di queste sequenze genetiche determinano la diversa sensibilità al dolore.
Sostanze in grado di inibire questi canali rappresenterebbero quindi un utile analgesico in grado di trattare numerose condizioni che determinano dolore.
Uno studio australiano pubblicato pochi giorni fa sul British Journal of Pharmacology ha individuato nel veleno di alcuni ragni una naturale fonte di peptidi in grado di modulare i canali Nav1.7.
Con oltre 45000 specie esistenti, nel veleno dei ragni si possono contare centinaia di migliaia di peptidi, e di questi solo meno dello 0,01% è stato studiato per i possibili effetti farmacologici.
I ricercatori australiani hanno esaminato il veleno di ben 205 ragni, appartenenti a 13 differenti famiglie tassonomiche, e l’effetto che questo induce nei canali del sodio.
Il 40% dei veleni ha dimostrato di contenere inibitori dei canali sodio, il 15% invece sembra avere degli attivatori di tali canali, mentre i rimanenti non inducono alcun effetto.
I veleni che più inibiscono i Nav sono stati frazionati, purificati e sequenziati, portando all’identificazione di sette nuovi peptidi. Di questi uno in particolare, denominato Hd1a, si è dimostrato essere più selettivo nei confronti dei canali Nav1.7 ed è contenuto nel veleno dell’Haplopelma doriae, una specie di tarantola originaria del Borneo.
L’Hd1a è in grado di modificare il canale Nav1.7, inibendone la funzione, e per la sua struttura si è dimostrato essere chimicamente, biologicamente e termicamente molto stabile.
Potrebbe costituire la base per lo sviluppo di nuovi farmaci analgesici.
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