In un mondo sempre più “vecchio” la malattia di Alzheimer rappresenta una vera e propria piaga sociale. Distrugge l’individuo da dentro, nella sfera individuale e in quella sociale, senza ucciderlo.
Ad oggi non se ne conosce la causa, non si hanno certezze sui fattori di rischio e non esistono terapie molto efficaci; al contrario di quanto si pensi è perfino difficile diagnosticarlo.
Un piccolo barlume di speranza però c’è: forse siamo sulla strada giusta per capire i meccanismi cellulari che causano questa patologia.
Passiamo moltissimo tempo, da giovani, a cercare di “dimenticare” cose, persone, avvenimenti finché ci rendiamo conto che è quasi impossibile. La nostra più grande paura, da vecchi, è quella di perdere ciò che in tanti anni abbiamo accumulato con fatica, dolore, gioia e passione: i nostri ricordi. La malattia di Alzheimer, però, è molto di più di una semplice perdita di memoria: è una perdita graduale e inesorabile dell’indipendenza e dell’identità di se stessi e del proprio mondo. Non si perdono solo i ricordi, importanti o meno, ma si perde il controllo di se stessi sul mondo, il proprio carattere e temperamento, le capacità affettive si modificano.
In poche parole si perde la propria vita, senza morire. L’impatto più grave di questa condizione, oltre quello sul sistema sanitario (che non può essere trascurato), si verifica sulle famiglie di questi pazienti, che sono “affette” a 360°, poiché il malato necessita di attenzioni 24 ore al giorno, ma spesso non è in grado di ricambiare da un punto di vista affettivo chi si prende cura di lui.
Inutile parlare di incidenza e prevalenza, ma appare chiaro a tutti che riuscire a sbrogliare quel gomitolo e trovare, non dico una soluzione, ma perlomeno un possibilità di speranza, sia un dovere innanzitutto morale!
I ricercatori non sono sordi questa necessità e si son messi all’opera ottenendo di quando in quando qualche discreto successo.
Pochi giorni fa però, una notizia ha fatto il giro del mondo: è stata scoperta la causa dell’Alzheimer. Noi vogliamo essere un po’ più cauti e diciamo che ci sono evidenze che ci suggeriscono che, nell’insorgenza della patologia, sia implicata l’attività enzimatica arginasica associata alla microglia.
Secondo uno studio pubblicato sul Journal of Neuroscience infatti, la microglia (tipo cellulare immunocompetente del tessuto nervoso) possiede un enzima, l’arginasi, capace di metabolizzare l’arginina, i cui prodotti di degradazione sono poi rilasciati negli spazi intercellulari. L’eccessiva attività di questo enzima, considerata da questo studio alla base dello sviluppo dell’Alzheimer, determina un duplice effetto sul sistema nervoso: sottrae arginina e determina un accumulo di materiale negli spazi intercellulari, che non riesce ad essere smaltito. Il tutto si ripercuote sull’attività nervosa e la trasmissione sinaptica che diventano inefficaci.
Nello studio, effettuato su topi da laboratorio, sono stati evidenziati altri due importanti concetti: il primo spiega perché i primi sintomi siano a carico della memoria a breve termine, riconoscendo nell’ippocampo la regione dell’encefalo in cui l’arginasi risulta essere maggiormente espressa; il secondo, forse più importante concetto da sottolineare è che, se questa fosse effettivamente la dinamica eziopatogenetica alla base basterebbe inibire l’attività enzimatica per rallentare lo sviluppo della malattia. La Difluorometilornitina, inibitore dell’arginasi, è stata utilizzata sui topolini e si è mostrata efficace nel proteggerli dall’evolvere della patologia.
Insomma la buona novella è vera, ma di strada da fare ce n’è ancora molta. Inoltre ad oggi scoprire la causa ci aiuta solo nella prevenzione di nuovi casi, ma resta il fatto che si deve continuare a studiare un adeguato piano di assistenza per tutti coloro che, purtroppo, sono già affetti.
Quindi tante buone speranze e tanto ottimismo, ma piano a gridare al miracolo e continuiamo a darci da fare per i malati di oggi!