Quando mi chiedono perché bisognerebbe affidarsi alla scienza, alla medicina, agli uomini, per risolvere terribili condizioni morbose che affliggono nel profondo un individuo, la mia risposta è chiara e concisa: “perché la medicina è una storia, l’unica, di speranza e di progresso reale“.

Certo ve ne sono di alternative, ora più che mai, ma quali realmente valide? Oggi sono io “l’alternativo”: eviterò di demitizzare gli oracoli, non confuterò le pseudoscienze e non attaccherò Guru del web. Niente di tutto ciò. Vi racconterò una bella storia, quella di un grande successo, una delle tante storie grazie a cui migliaia di persone conducono di nuovo una vita serena: la storia della LMC.

Quando si pensa alla parola “cancro” essa si associa alla parola “fine”, correlando l’evento a qualcosa di necessariamente infausto. Certo, infausto lo è molte volte. Chemioterapia, aspettativa di vita, la questione della fortuna, il “perché a me”, sono molte delle domande che un individuo a cui è stata accollata tale diagnosi si pone. Molte domande non hanno risposta, altre invece ce le hanno e ad oggi, sono alle volte molto più che positive.

Nel 1960 un paziente a cui era diagnosticata la Leucemia Mieloide Cronica o LMC aveva un’aspettativa di vita di soli 3 anni. Nessuno, o quasi, riusciva a raggiungere la soglia dei 5 anni, standard temporale a cui solitamente si fa riferimento nelle curve di sopravvivenza.

Cos’è la Leucemia Mieloide Cronica?

La parola “leucemia” significa letteralmente “sangue bianco” ed indica l’aumento dei globuli bianchi nel sangue del paziente tanto da fargli assumere un aspetto lattescente. In tale patologia troviamo solitamente da 100.000 a 500.000 globuli bianchi (circa 8-10.000 valore normale, ndr.) ed i pazienti risultano fortemente debilitati a causa della fatica cronica, della splenomegalia, della condizione di anemia e di tutti gli altri sintomi che la malattia produce. La patologia rimane in forma cronica per diversi anni, ma evolve nella sua storia naturale in crisi blastiche che conducono, in pochi mesi, ad exitus.

Fino agli anni ’60 le speranze di sopravvivenza per questi malati erano scarse. I protocolli chemioterapici utilizzati erano agli albori, l’arsenico accendeva la speranza nei cuori dei malati e le radiazioni erano, con scarsi risultati, utilizzate alla ricerca della parola magica: “remissione”.

Fu proprio in questi anni che Peter Nowell e David Hungerford, nel corso delle loro ricerche nel laboratorio di Philadelphia, correlarono la LMC a l’evidente e ripetuta osservazione di un cariotipo anomalo in questi pazienti. Solo vent’anni dopo, nel 1980, si capì che tale anomalia era il prodotto di una traslocazione genica che, come risultato, dava il Gene BCR-ABL, meglio conosciuto come “Cromosoma Philadelphia”.

Anni di ricerca, dodici per l’esattezza, per giungere ad un farmaco chiamato l’Imatinib, capace di colpire esattamente il bersaglio molecolare prodotto dal gene aberrante. Solo nel 1998 il farmaco fu testato per la prima volta sui pazienti affetti da LMC che, non rispondendo alle terapie convenzionali, erano destinati a morire di lì a poco.

Quale fu il risultato?

Come da protocollo il farmaco fu provato su coloro i quali non avevano più nessuna speranza, se non il principio sperimentale appunto. I risultati furono eclatanti. A sei mesi dall’inizio della somministrazione tutti i pazienti sottoposti al trial erano ancora vivi e, la conta dei globuli bianchi, calata radicalmente. Fu una rivoluzione: una malattia che conduceva a morte entro tre anni si era trasformata in una patologia per cui i trattamenti conducevano a 5 anni il 95% dei pazienti.

Si può affermare che, per la prima volta nella storia della medicina, la scoperta di un’alterazione molecolare specifica consentì lo sviluppo di una farmaco altrettanto specifico per quella singola condizione.

Come funziona l’Imatinib?

Il prodotto di fusione ABL-BCR genera un recettore tirosin-chinasico il cui effetto porta la cellula a proliferare indiscriminatamente. E’ come se fosse un interruttore posizionato costantemente su “ON” capace di condizionare la vita della cellula. L’Imatinib interferisce con questo meccanismo andandosi ad inserire specificatamente nella tasca dell’enzima preposta alla defosforilazione dell’ATP, rendendone il sito di binding inaccessibile.

Ma le cellule sono intelligenti, e non per nulla il cancro è denominato “il bastardo”. Alcuni pazienti sottoposti a trattamento sviluppavano resistenza al farmaco dovute a modifiche del sito di binding. Una sfida continua fra ricercatori e cellule leucemiche che, nuovamente, ha condotto a sviluppare altri farmaci come Desatinib e Nilotinib in grado di sconfiggere queste resistenze.

Oggi, nel 2016, da una storia iniziata quasi ottant’anni fa, possiamo affermare che il 95% dei pazienti affetti da Leucemia Mieloide Cronica sia vivo ben oltre i cinque anni e controlla la malattia in maniera ottimale.

Diversi sono i centri che, entusiasti dei risultati ottenuti, hanno pubblicato la propria personale esperienza confrontandola con il passato.

Uno studio – condotto dal Cancer Center and Geriatric Center dell’University of Michigan e il Department of Leukemia and Stem Cells Transplants and Cellular Therapy di Houston – ha raccolto i dati di 1569 pazienti Ph+ dal 1965 e ne ha confrontato l’andamento clinico non solo in base allo stato della malattia, ma anche in relazione all’introduzione dei nuovi trattamenti. Costruendo una curva media di sopravvivenza per tutti i pazienti, indiscriminatamente dal periodo storico, è emerso che i soggetti con diagnosi di LMC in forma Cronica sopravvivevano mediamente 8.8 anni, in fase avanza 4,8 anni e in fase blastica solo 6 Mesi.

È sorprendente il risultato deducibile dall’analisi dettagliata dei dati. Si evince come, per i pazienti in fase cronica, la mediana di sopravvivenza sia aumentata incredibilmente. Solo il 6% di coloro i quali ricevevano diagnosi prima del 1975 aveva un’aspettativa di vita ad 8 anni mentre, considerando il periodo successivo al 2001, ben l’87% dei pazienti riesce a sopravvivere a questa neoplasia nello stesso arco di tempo. Un grande successo.

Non i medesimi risultati, però, nell’analisi dei dati dei pazienti con malattia in fase blastica. L’aspetto clinico più grave della malattia è anche il più difficile da trattare e, confrontando i risultati, i pazienti giovani (<50 anni) sono quelli che riescono a trarre un maggiore beneficio dai presidi.

Emerge, comunque un’incoraggiante verità: pazienti in fase cronica equiparabili per fattori di rischio hanno, con l’Imatinib, un’ottima prospettiva di vita. Il farmaco controlla la malattia, porta a remissione e riduce il rischio di evoluzione della malattia in fase blastica.

Grafico 1 - Leucemia Mieloide Cronica

Un altro studio – pubblicato nel 2014 e condotto dal Centro Medico Nazionale di Ematologia del Messico – ha raccolto i dati della propria esperienza ventennale nel trattamento dei pazienti con LMC Ph+.

Anche da questo studio emergono incoraggianti risultati. I ricercatori, a differenza del precedente, si sono focalizzati sull’andamento della sopravvivenza in base ai protocolli terapeutici utilizzati nel corso del tempo. È stata presa in considerazione, quindi, la Chemioterapia (CT, Busulfan e Idrossiurea), interferone (IFN), il trapianto allogenico (HSCT) e la terapia con Imatinib (TKI).

Dal confronto delle terapie si deduce chiaramente che, prima dell’introduzione dell’Imatinib, pochi erano i pazienti capaci di sopravvivere ad 8 anni dalla diagnosi e, i pochi che ci riuscivano, erano gli unici sopravvissuti al trapianto di midollo.

L’introduzione del IFN, in passato, fu per la prima volta capace di dare delle risposte citogenetiche realmente apprezzabili sebbene, lo step successivo del trapianto di midollo, avrebbe fornito risposte ancora superiori.

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Quest’ultimo grafico, assieme ai precedenti, non è semplicemente la descrizione di curve di sopravvivenza che, come un macigno, pesano sulle spalle dei pazienti neoplastici. Questi dati sono, soprattutto, la storia di un progresso dovuto ad anni di studio ed all’investimento di numerose risorse umane ed economiche

Il raggiungimento di determinati risultati – interpretabili sia come la scoperta di un gene, ma soprattutto come la maggiore sopravvivenza di pazienti affetti da neoplasia – passa necessariamente da un impegno che è sociale, di tutti. Esso si esplica nella consapevolezza che la scienza sia la macchina del progresso e come tale vada alimentata senza pretendere risultati immediati. Le scoperte che migliorano l’esistenza di tutti, infatti, passano da una serie di step obbligati da innumerevoli fattori, compresa la “casualità”. Ciò che ci compiace, però, è l’idea ampiamente convalidata che i risultati, nel momento in cui arrivano, forniscono svolte direi “epocali”.

Fonte | (1) Improved Survival in Cronic Myeloid Leukemia since the Introduction of Imatinib Therapy: a single-institution historical experience (2) 50th years in hematology (3) The treatment of chronic myeloid leukemia: a single-center, 20-year experience (4) History of Chronic Myeloid Leukemia (5) Target Therapy for Chronic Myeloid Leukemia 

Domenico Posa
Amministratore e Facebook Manager | Frequento Scuola di Medicina e Chirurgia presso l'Università degli Studi di Bari "Aldo Moro." Fondatore ed ideatore del progetto "La medicina in uno scatto" | email - domenico.posa@gmail.com