La morte, si sa, rappresenta la fine della vita, la cessazione di tutti i processi biologici. Il cuore smette di battere e, all’improvviso, ogni singola cellula si ferma, molla tutto e si lascia morire. Ma è davvero così? Sembra proprio di no.
Presso l’Università di Washington, Peter Noble, Alex Pozhitkov e il loro team hanno esaminato espressione post-mortem dei geni negli organi di 43 zebrafish (Danio rerio) e di 20 topi comuni (Mus musculus), osservando come alcuni di questi non solo non si spengano ma, addirittura, si attivino.
Per questo lavoro i ricercatori hanno studiato sistematicamente l’attività di più di 1000 geni (548 geni nei Zebrafish e 515 nel topo) misurandone i relativi RNA messaggeri in campioni bioptici di fegato e cervello prelevati fino a 4 giorni post-mortem. Alcuni dei geni in esame hanno mostrato un’attività aumentata nelle prime 24 ore; altri geni, nei pesci zebra, hanno mostrato residui di attività anche dopo 4 giorni.
Sorprendente è notare che i geni in questione sono coinvolti per la maggior parte nei processi di infiammazione e rigenerazione (es. Hsp), come se vi sia il tentativo di sfruttare tutta l’energia cellulare residua fino alla fine per cercare di riparare il corpo come se fosse in vita; altri geni in esame sono invece correlati con la risposta immune, soprattutto quella di tipo innato come IL-6 e TNF, e la cancerogenesi.
Un processo simile potrebbe verificarsi anche negli esseri umani. Già precedenti studi hanno dimostrato che diversi geni, compresi quelli coinvolti nella contrazione del muscolo cardiaco e la guarigione delle ferite, erano attivi più di 12 ore dopo la morte di individui con traumi multipli, attacco cardiaco o soffocamento.
Il fatto che alcuni geni associati alla cancerogenesi vengano attivati dopo la morte degli animali potrebbe essere rilevante per eventuali passi avanti in ambito trapiantologico. Innanzitutto, l’eventuale dimostrazione di un ruolo di questi nello sviluppo di neoplasie negli organi trapiantati potrebbe portare allo sviluppo di protocolli terapeutici in grado prevenirle; vi sarebbero inoltre grosse implicazioni nella gestione dei trapianti anche da donatore non vivente, per esempio lo sviluppo di marker per pronosticare la qualità di un trapianto.
Infine, questa scoperta potrebbe essere rilevante per i patologi forensi, che potrebbero usufruire della misura di precisi mRNA nell’individuare con maggiore precisione l’ora del decesso e, forse, anche i minuti.
Molti studi dovranno ancora essere effettuati e molte potranno essere le applicazioni derivanti ma, ancora una volta, il DNA si presenta come la parte più forte di noi. Il vero direttore d’orchestra di questa meravigliosa cosa che è la vita.
Il primo ad attivarsi, l’ultimo a spegnersi.