La sindrome da immunodeficienza acquisita, causata dal virus HIV, è sicuramente uno dei maggiori problemi sanitari della società attuale. Sebbene patogeni molto più aggressivi catturino l’attenzione dei media, come è accaduto per Ebola, i dati della World Health Organization sono molto chiari a riguardo: l’AIDS è la sesta causa di morte nel mondo, e nel 2012 si stima abbia causato più di 1,5 milioni di decessi. Nonostante gli sforzi della comunità scientifica, una cura vera e propria non è stata ancora individuata. Tuttavia numerosi farmaci sono stati sviluppati in tempi record dalla scoperta di questo virus, e permettono attualmente una lunga aspettativa di vita se la diagnosi è effettuata precocemente.

Questi composti chimici agiscono efficacemente a vari livelli del ciclo replicativo virale, permettendo di arginare l’infezione per lungo tempo. Ma proprio le caratteristiche di HIV lo rendono un bersaglio incredibilmente sfuggente a qualsiasi farmaco, la cui azione risulterà mano a mano indebolita col passare dei mesi. I retrovirus sono caratterizzati dalla capacità di integrarsi stabilmente nel genoma delle cellule infettate, e nel caso di HIV avviene inoltre un processo di latenza, in cui il provirus (il genoma virale integrato) rimane in quiescenza all’interno dei linfociti T della memoria CD4+.
Ad ogni risposta si avrà quindi che una piccola popolazione di cellule infettate viene conservata, e sarà in grado di riattivarsi successivamente e produrre nuovi virioni. Il genoma a RNA di HIV presenta un altissimo tasso di mutazioni all’interno del singolo paziente, secondo alcuni studi paragonabile a quello dell’influenza stagionale nell’arco di un anno su scala globale. Sono in corso sperimentazioni volte a eradicare il genoma virale dalle cellule tramite gene editing, ma ad oggi la combinazione di antiretrovirali (HAART) è l’unica vera arma contro l’AIDS. Ogni nuova molecola in grado di ostacolare il ciclo vitale del virus si traduce in una maggiore aspettativa di vita per i pazienti, da qui la necessità di scoprire bersagli molecolari sempre differenti.

Le nostre cellule possiedono già numerosi meccanismi evoluti a contrastare infezioni di natura virale: in particolare alcune proteine denominate fattori di restrizione agiscono su checkpoint fondamentali del ciclo replicativo. La pressione selettiva e l’incredibile variabilità genetica hanno però permesso ad HIV e altri virus di sviluppare degli inibitori altamente efficaci, e comprenderne al massimo il funzionamento potrebbe portare a nuovi risvolti terapeutici. Il genoma di HIV contiene infatti l’informazione necessaria per codificare un pool di proteine più grande rispetto a retrovirus più semplici; oltre ai fondamentali Open Reading Frames (gag, env, pol) troviamo: tat, rev, nef, vpu, vif e vpr. Senza entrare nei dettagli, i primi due geni sono necessari a regolare il ciclo replicativo mentre i rimanenti sono fattori che in generale aumentano l’infettività, proprio combattendo le difese innate della cellula. Comprendere l’esatta funzione di queste proteine è una sfida attuale nella lotta contro HIV, e proprio una di esse è l’oggetto di un recente studio di un gruppo di ricerca italiano dell’università di Trento pubblicato su Nature.

Nef (negative regulatory factor) è una piccola proteina che si localizza nel citoplasma e nella membrana delle cellule infettate. Sebbene l’insieme delle sue funzioni sia da tempo oggetto di studio, quel che è stato chiaramente dimostrato è che tale fattore è necessario per produrre alti titoli virali e generare quindi un’infezione aggressiva. Alcuni pazienti infettati da ceppi difettivi per Nef sviluppano AIDS in tempi molto lunghi o non lo sviluppano affatto, e ricadono nella categoria clinica dei long term-non progressors. Da qui è nato l’interesse della comunità scientifica, ma qual è esattamente il ruolo di questa proteina? I limiti di capacità dei virus rendono i loro sistemi di infettività altamente efficienti e multi-funzione: quel che emerge da questa recente ricerca è che SERINC5, una proteina di membrana, è uno dei target di Nef. In una cellula sana questa proteina è inserita nella membrana cellulare, ma una volta infettata da HIV viene invece indirizzata alla degradazione in endosomi. La sola presenza di SERINC5 sulla membrana è infatti in grado di inibire fortemente l’infettività dei virioni prodotti dalla cellula stessa, e dunque ne limiterebbe la proliferazione all’interno dell’organismo. Il meccanismo con cui ciò avviene non è del tutto caratterizzato: la fusione tra le membrane necessaria all’entrata di HIV nella cellula passa per una serie di passaggi termodinamicamente sfavorevoli, e un minimo cambiamento nella composizione del doppio strato lipidico, o della sua curvatura, potrebbe essere sufficiente ad impedire al capside di accedere al citoplasma.

Le implicazioni di questa scoperta non sono così immediate, ma possiamo immaginare alcune possibilità future. Un farmaco in grado di imitare l’attività di SERINC5, o di contrastarne l’interazione con Nef, potrebbe ripristinare questa barriera innata all’infettività e costituire una nuova linea di difesa contro la patologia. Non bisogna però gridare al miracolo: la ricerca di base è fondamentale per gli sviluppi tecnologici e medici successivi, che però richiedono il superamento di una serie di ostacoli non indifferenti, tempi lunghi e risorse. Nonostante ciò una scoperta del genere va sicuramente accolta con un cauto ottimismo, consegnandoci quella che potrebbe essere una nuova arma nella lotta contro HIV.

Qui potete trovare tutto ciò che abbiamo precedentemente pubblicato sull’HIV.

Immagine in evidenza: NIAID|Flikr

Gian Marco Franceschini
Studio Quantitative and Computational Biology presso l'università di Trento. Credo in un approccio multidisciplinare e aperto alla ricerca scientifica, che ci consenta di superare assieme i problemi dell'oggi e del domani. Nel tempo libero combatto la noia in mille modi diversi, e vinco quasi sempre io.