“L’uomo conserva ancora nella sua corporale impalcatura lo stampo indelebile della sua bassa origine.” – Charles Robert Darwin

Credo che, senza arroganza, io possa definirmi una persona dai comportamenti socialmente accettabili, o quantomeno mi adopero perché lo siano. È sempre stato così, non ho mai avuto grossi problemi a far combaciare il vivere sociale con la mia routine. Questo almeno fino al gennaio 2012, prima sessione d’esame: da lì la scoperta che sotto la patina di convenzioni e autocontrollo vive ancora una scimmia.

Cominciai come molti a volere provare l’ebrezza dello studio in biblioteca, ma dovetti desistere in fretta quando amaramente constatai che il chiacchierare fuori dall’aula studio con un caffè in mano o gioire alla vista delle bellezze del creato femminile, difficilmente mi avrebbero aiutato a passare chimica. Mi votai all’eremitaggio diurno nella mia camera, per prendere piuttosto una boccata d’aria alla sera, iniziando a covare quel coacervo di tic problematici che ora guardo con tenero affetto e che chiamo “casa”.

Il primo che sviluppai fu il vagabondaggio: camminare e camminare senza meta per la casa mentre, con un italiano ad un battito di ciglia dalla disartria, provavo a ripetere amminoacidi prima, meiosi dopo, e nel frattempo afferrare oggetti come un automa privo di coscienza per poi appoggiarli nei posti più disparati e, ovviamente, perderli. Mi preoccupai solo quando trovarono un calzascarpe tra le posate durante la preparazione di farmacologia.

Poi fu il turno della finestra, perdersi a fissare i passanti e immaginare chi fossero o cosa stessero facendo, in giornate di crisi arrivare ad insultarli gratuitamente tra sé e sé per poi accorgersi con sgomento che si sta scivolando nello psichiatrico. Poi lo sgomento passa e la psichiatria resta e allora si arrivano a insultare anche gli oggetti quando quell’argomento in testa proprio proprio non ci entra, bastardo cuscino che cazzo hai da guardare?

Anche sul look non ho mai perso un colpo, per esempio l’invernale calza da basket fino al polpaccio associato a pantaloni sbiaditi della tuta oramai privi di forma risalenti a quando le Las Ketchup erano una fresca novità. Solo io credo di poterli riconoscere come braghe e non come massa di cotone amorfa. Poesia per gli occhi, soprattutto se accompagnato da sguardo vacuo e palpebra a mezz’asta. Mio fratello arrivò a dire: “Se devo diventare così, non farò mai l’università.”

E fu sera e fu mattina, quarto anno.

Ecco, se inizialmente la concentrazione poteva essere quella di una persona normale che si impegna, dal quarto anno in poi cominciò la discesa agli inferi: perdere un’ora a mettere i libri in ordine alfabetico, far stare in bilico due penne incrociate sull’ abat-jour, il malefico calderone del “do un’occhiata a facebook veloce”, interminabili partite di basket con il cestino o, la mia preferita, fissare come lobotomizzato il muro. Ho poi cominciato a chiedere pesantemente aiuto alla caffeina con il risultato che riesco a perdere un sacco di tempo ma con molta più ansia, come la volta che optai per la Red-Bull e mi ritrovai a picchiettare più velocemente possibile due matite sulla scrivania senza poter controllarmi. Per fortuna non ho mai tirato di coca.

Credo che il fondo l’abbia raggiunto quest’anno quando, saturimetro portatile al dito, passai un fruttuosissimo pomeriggio a vedere quanto riuscivo a desaturare trattenendo il fiato.

In tutto ciò mi ha sempre confortato l’idea che quell’abbietto essere che vedevo allo specchio la mattina in realtà era uno tra i tanti, uniti dall’infame sorte della sessione incombente, uno tra i tanti che apre il frigo compulsivamente nella speranza che le soluzioni alle domande esistenziali per quell’esame siano lì dentro, e invece succede una barretta kinder di traverso in bocca.

Forse da una qualche parte del mondo esiste qualcuno che anche sotto esame riesce a mantenere l’aplomb, forse un giorno l’evoluzione porterà tutti gli studenti ad essere come quello, un X-man pronto a conquistare le università italiane. Nel frattempo che lo aspetto, insieme a tutti voi, continuo a godermi i pantaloni sformati e la psicosi da sbobina saltata.

Che bello l’essere umano.

Francesco Giaroni
Nato nel 1992, laureato in Medicina e Chirurgia all'Università di Modena e Reggio Emilia nel 2017, ancora non se ne capacita e dice che da grande farà l'archeologo. Estimatore di Jorge Luis Borges e della FIAT Multipla, attualmente cerca di districarsi tra glomerulonefriti e iperpotassiemie con scarsi risultati. Ha pubblicato un libercolo di racconti brevi dal titolo "Io, Ernesto e gli altri."