Molti hanno già raccontato di quanto ci senta tosti il primo giorno di tirocinio, quando si mette il camice e per non sembrare un casaro si fa sbucare dalla tasca lo stetoscopio (o se sei davvero spavaldo, lo lasci penzolare intorno al collo). Il problema è stato che io e i miei compari del “gruppo 15” non ne abbiamo mai avuto del tutto il tempo, e per prima cosa abbiamo capito quanto occupassimo il ruolo del plancton nella catena alimentare dell’ospedale.

Mi spiego meglio:

Avevamo appuntamento con il nostro tutor di tirocinio di semeiotica in una stanzetta al secondo piano del reparto di nefrologia. Arrivati ci guardammo quasi imbarazzati, il sorriso sulle labbra che cercava di essere celato sotto un velo di finta pudica indifferenza. Guardalo lì quel vestone bianco, figo però dai, e lo stetoscopio che ho provato ad auscultare mio fratello ma si sentiva solo del gran casino poi lui non smetteva di parlare e s’è messo a ridere e ho perso un timpano. Ancora indecisi sul da farsi (era meglio farsi trovare bardati di tutto punto o, più umili, in borghese?) il nostro tentennamento fu interrotto dall’entrata del medico.

Fare deciso, volto solare, buongiorno ragazzi, buongiorno prof, no no non sono un prof, buongiorno dottore?, ma si più colloquiale ragazzi non vi preoccupate.

E poi la domanda, con molta naturalezza: “Ma ditemi, come siete abituati a classificare le insufficienze renali?”

In tutta onestà, decisamente non eravamo abituati.

Da lì un memento homo su quanto fossimo pronti al reparto esattamente come alla fine dell’esame di quinta. Elementare. Lezioncina sul tacrolimus e sulla giusta scelta di sartani, accenni veloci sulla nefrite interstiziale associata a basi della dialisi peritoneale e accenno del Toyota method per un migliore funzionamento dell’ambiente di lavoro.

Io avevo più o meno appena finito di imparare che i reni erano due, almeno normalmente. Sudavo freddo, ma era possibile che fosse tutto così complicato?

Saliti in reparto, ancora frastornati dal quantitativo di informazioni che ci erano state sganciate sulla testa (senza peraltro riuscire a capire bene di cosa si stesse parlando) ci sentivamo smarriti. Per fortuna la mattina proseguì con qualcosa più alla portata delle nostre formidabili capacità, ovvero imparare a percuotere toraci, e la fiducia di non aver sbagliato corso di laurea si riaffacciò nei nostri occhi intenti a capire come mai le sue dita facessero sembrare una grancassa qualsiasi paziente.

Oramai il primo giorno volgeva al termine, prima di terminare però il tutor volle andare a controllare una paziente con insufficienza renale in isolamento da contatto per un’infezione da klebsiella pneumoniae resistente ai carbapenemi.

Noi tutti lo seguimmo nella stanza, mettendoci nell’angolo opposto rispetto al letto visto che il termine KPC suonava davvero minaccioso. Solo Emiliano, nostro compagno, si era attardato per lavarsi le mani e ci raggiunse in stanza mentre medici ed infermieri confabulavano tra loro.

“Ragazzi avete un fazzoletto?” chiese.

“Guarda, se vuoi ci sono i miei” rispose gentilmente la paziente tendendoli ad Emiliano, e lui accettandoli con un sorriso.

Non ho mai ben capito il perché, in questi casi, tutti quelli esterni alla scena si muovano al rallentatore rendendo quindi del tutto inutile i tentativi di impedirgli di soffiarsi il naso in compagnia delle klebsielle. Infatti lo fece, tra gli sguardi attoniti dei presenti.

La settimana successiva fu passata nell’orgia dello spavento: ogni starnuto era un avvertimento, ogni dolorino un chiaro segno di sepsi, ogni momento di stanchezza un passo verso l’exitus anche a dispetto delle rassicurazioni del nostro tutor. Non successe nulla e non dovemmo chiamare nessuno per l’estrema unzione, e tutt’oggi sta una favola, lui e l’ipocondria sua grande compagna di vita.

E così passò il primo giorno in ospedale, usciti dalla porta scorrevole per tornare a lezione con il più importante insegnamento che volenti o nolenti si deve mettere in tasca, ovvero il tirocinio come la grande Livella. Puoi avere i meglio voti, puoi sapere anche le didascalie delle immagini per qualsiasi esame, ma non affannarti e aguzza la vista: qui dentro, o caro studente, sarà sempre la Savana.

Francesco Giaroni
Nato nel 1992, laureato in Medicina e Chirurgia all'Università di Modena e Reggio Emilia nel 2017, ancora non se ne capacita e dice che da grande farà l'archeologo. Estimatore di Jorge Luis Borges e della FIAT Multipla, attualmente cerca di districarsi tra glomerulonefriti e iperpotassiemie con scarsi risultati. Ha pubblicato un libercolo di racconti brevi dal titolo "Io, Ernesto e gli altri."