Se il chirurgo è donna la mortalità post-operatoria risulta essere minore.
È quanto emerge da uno studio pubblicato sul British Medical Journal, che documenta l’inconsistenza delle differenze di genere che sussistono tuttora in ambito medico (incluso quello chirurgico) e che danno luogo a quello che viene definito “gender gap“.
Il background.
La rappresentanza di donne in ambito medico è aumentata nel corso degli ultimi anni, tendenza definita “femminilizzazione della medicina”.
Tuttavia, il cosiddetto “soffitto di vetro“ si è rivelato particolarmente resistente, rappresentando ancora oggi una componente integrante della carriera professionale delle donne in ambito medico. Tale espressione indica che gli ostacoli alla carriera scientifica per le donne sono in gran parte invisibili. Si tratta di resistenze culturali, pregiudizi, impedimenti di tipo sociale o familiare, stili di vita e discriminazioni di genere.
La Chirurgia è un ambito tuttora a predominanza nettamente maschile. Nonostante si sia registrato in alcuni Paesi un incremento del numero di donne inserite nelle branche chirurgiche, persiste un evidente sbilanciamento rispetto ai colleghi di sesso maschile.
Donne e uomini esercitano la professione medica in maniera diversa, come emerso da molteplici studi.
Negli USA sono stati riscontrati tassi di mortalità più bassi tra i pazienti trattati da medici internisti di sesso femminile, suggerendo, quale possibile motivazione, un approccio più attento alle linee guida e alla centralizzazione del paziente rispetto ai colleghi di sesso maschile.
L’interesse per l’uguaglianza di genere in ambito medico-chirurgico è volto a comprendere in quale misura e con quali modalità gli out-come dei pazienti siano inficiati dalle competenze tecniche e dalle qualità cognitive e comunicative correlate al genere.
Lo studio.
Il lavoro di Christopher Wallis e dei suoi collaboratori, appartenenti alla Divisione di Urologia dell’Università di Toronto, nasce con l’obiettivo di porre gli outcome post-operatori (nei 30 giorni successivi alla procedura chirurgica) in relazione al sesso del chirurgo.
Metodi.
Per questo lavoro, gli studiosi hanno analizzato retrospettivamente gli esiti delle operazioni eseguite su 104.630 pazienti da 3314 chirurghi, di cui 774 donne (23,4%) e 2540 uomini (76,6).
I pazienti sono stati reclutati in base a: età, sesso, provenienza geografica, condizioni socio-economiche e comorbidità, al fine di rendere uniforme il campione in esame.
I chirurghi sono stati, a loro volta, selezionati per età, anni di esperienza, numero di procedure chirurgiche effettuate in un anno, branca chirurgica di appartenenza.
Risultati.
I parametri valutati nell’arco dei 30 giorni successivi alla procedura chirurgica, includono:
- Mortalità;
- Complicazioni;
- Nuovi ricoveri.
Sono emersi tassi di mortalità nei 30 giorni post-intervento inferiori nel gruppo di pazienti trattati da chirurghi di sesso femminile rispetto al gruppo trattato da chirurghi di sesso maschile.
Non sono state, invece, riscontrate differenze significative negli altri due parametri, ovvero le complicazioni post – operatorie e i nuovi ricoveri.
Limiti dello studio.
Nonostante l’utilizzo di criteri volti a rendere uniforme il campione di pazienti in esame, vi sono alcune variabili che potrebbero aver influito sui risultati dello studio, quali età, status socio-economico e comorbidità per i pazienti, numero di pregresse procedure chirurgiche effettuate per i chirurghi.
Un ulteriore fattore che può aver condizionato l’esito dello studio è rappresentato dalla severità della patologia trattata chirurgicamente (lo stadio della neoplasia, ad esempio).
Il bisturi è roba (anche) da donna.
Lo studio effettuato dai ricercatori dell’Università di Toronto contribuisce a creare un’ulteriore crepa in quel “soffitto di vetro” che ancora separa le donne medico dalla piena realizzazione professionale nell’ambito della medicina e della chirurgia.
La definizione del concetto di salute come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia ed infermità” (OMS, 1946) è in linea con un approccio della medicina incentrato sulla qualità di vita.
Essere medico e donna può rappresentare, in tal senso, un valore aggiunto, in virtù di un approccio empatico in grado di determinare risultati migliori nel processo di cura e di ottenere una maggiore compliance dei pazienti alle terapie.
Da quanto emerso, le donne medico:
- sono più attente agli aspetti emozionali, psicologici e socioculturali, che vanno oltre la mera gestione della patologia in carico;
- investono gran parte del processo di cura nello stabilire una relazione empatica e partecipativa con i pazienti;
- sono più rispettose delle linee guida.
I tassi di mortalità, seppur differiscano solo modestamente tra pazienti trattati da chirurghi di sesso femminile e quelli trattati da chirurghi di sesso maschile, hanno importanti implicazioni cliniche.
Sulla base dei risultati ottenuti, si prospetta l’obiettivo di esaminare gli outcome post-operatori e di comprendere i meccanismi che influiscono su mortalità, complicazioni e decorso post-chirurgico, al fine di migliorare la gestione del paziente.
Pur evidenziando le competenze e l’affidabilità delle donne in sala operatoria, lo studio dimostra al contempo che il sesso del chirurgo è irrilevante ai fini dell’esito dell’intervento.
È quanto sottolineato nell’editoriale che accompagna l’articolo, nel quale Derek Alderson e Clare Marx, rispettivamente presidente attuale ed uscente del Royal College Of Surgeons Of England, pongono l’obiettivo di valutare i fattori alla base degli outcome in campo chirurgico, con lo scopo di realizzare le condizioni ottimali per la buona riuscita dell’intervento.
FONTI | Articolo originale, Editoriale, Immagine in evidenza, Studio USA