Le tracce del tentato suicidio nel nostro sangue

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Il suicidio è il più estremo atto di autolesionismo.

Che si siano vissute in prima persona esperienze del genere o che si vivano tramite conoscenti o tramite la narrazione dei mass media, è innegabile che già la sola parola susciti una serie di emozioni.

Secondo le più recenti statistiche, tra il 2009 e il 2010 il suicidio rappresentava la 10a causa di morte in tutto il mondo: solo negli stati uniti il suicidio occupa i gradini più alti del podio come causa di morte nella popolazione giovanile: rappresenta addirittura la 2a causa di morte tra gli individui dai 24 ai 35 anni (fonte).

Le cause che spingono al suicidio – siano esse fattori sociali, economici o di salute – sono molteplici e non tutte riconducibili ad un unico gruppo.

Per tal motivo, le prime e (attualmente) uniche possibilità che abbiamo di riconoscere e aiutare un individuo con inclinazioni all’autolesionismo sono il riconoscimento di alcuni pattern comportamentali tipici di chi sta per compiere l’estremo gesto.

Chiunque volesse approfondire la tematica o avesse bisogno di aiuto, può consultare il Servizio per la Prevenzione del Suicidio.

Un potenziale marker per il suicidio

L’individuazione di soggetti con tendenze autolesionistiche è strettamente operatore-dipendente, ma se esistesse un marker oggettivo in grado di rilevare questi individui, la situazione migliorerebbe?

A fornire le basi per la risposta a questa domanda ci ha pensato un team di ricercatori della Binghamton University che, per pura serendipità scientifica, hanno identificato un fattore molto promettente nel ruolo di marker del suicidio. I risultati sono stati pubblicati su “Suicide and Life Threatening Behaviour”, testata giornalistica della “American Association of Suicidology

Lo studio

La scoperta è stata fatta durante un altro studio riguardante la depressione e l’ansia negli infanti.

I ricercatori hanno reclutato un gruppo di 73 donne, madri di individui con disturbi depressivi, sottoponendole a test psico-attitudinali ed analisi complete del sangue e raccogliendone informazioni sullo stato socio-economico.

Il gruppo di donne, a seguito dei risultati dei test psico-attitudinali, è stato diviso in 2 sottogruppi: al primo sono afferite 34 donne che hanno ammesso di avere avuto in passato tendenze autolesionistiche o tentativi di suicidio, mentre al secondo sono afferite 39 donne che non hanno mai avuto queste tendenze.

A sorprendere i ricercatori sono stati i risultati degli esami del sangue: nel primo sottogruppo, contenente i soggetti con tendenze autolesionistiche, i livelli ematici di Fattore Neurotrofico Cerebrale (BDNF, o Brain-derived neurotrophic factor) si trovavano in concentrazioni nettamente più basse rispetto al secondo gruppo (contenente i soggetti che non hanno mai avuto pensieri autolesivi).

Perché il BDNF?

La scelta del BDNF non è per niente casuale.

Questo fattore svolge la sua azione al livello sinaptico, partecipando al processo di plasticità sinaptica e di memoria a lungo termine.

Il motivo per cui i ricercatori hanno dosato la sua concentrazione al livello ematico è da ricercare nel fatto che già studi precedenti avevano puntato i riflettori su questa neurotrofina come possibile responsabile per pensieri depressivi e autolesivi.

Sorprendente è, inoltre, la validità del BDNF come marker a lungo termine: molti soggetti del primo sottogruppo avevano tendenze autolesive risalenti fino a 13 anni prima.

Inoltre, il BDNF ricopre bene il ruolo di marker per persone che hanno avuto o potrebbero avere tendenze autolesive, in quanto la riduzione della sua concentrazione non è accompagnata da quella di nessun’altra proteina e i suoi livelli si mantengono stabilmente bassi, anche se il paziente non sta attraversando un periodo di depressione e ansia.

Sebbene la ricerca vada ampliata anche alla popolazione maschile e ad individui appartenenti ad altri ceti sociali (tutti i partecipanti a questo studio erano donne appartenenti al ceto medio americano), la potenziale scoperta di un marker offrirebbe ai medici e ai familiari uno strumento in più nell’identificazione di soggetti con potenziali tendenze suicide.

Fonte| Circulating Levels of Brain-Derived Neurotrophic Factor and History of Suicide Attempts in Women

 

Jacopo Castellese
Appassionato di scienza e tecnologia. Quando non sono impegnato in attività di reparto o di studio cerco sempre di tenermi aggiornato in modo da scardinare le false credenze che le pseudoscienze di oggi (o il dr. Google di turno) cercano di affermare.