“L’interesse alla morte e alla malattia, ai fenomeni patologici, alla decadenza non è che una variata espressione dell’interesse alla vita, all’uomo, come dimostra la facoltà umanistica di medicina.” – T.Mann
Al giorno d’oggi, “facoltà umanistica di medicina” suona per molti un po’ come una stonatura essendo abituati a far rientrare tale facoltà in quelle di stampo scientifico. In passato le conoscenze scientifiche del medico però erano minime se non nulle, di fatto si ritrovava spesso solo a sostenere il malato, il quale si affidava completamente a lui, accompagnandolo durante la sua malattia.
Nel 21° secolo, invece, ci ritroviamo in quello che sembra essere un controsenso ma che in realtà non lo è: il medico ha mezzi e conoscenze tali da poter risolvere numerosissime condizioni patologiche ma non sempre riesce a prendersi cura del malato in toto. Quest’ultimo, d’altronde, sempre meno riesce ad affidarsi e fidarsi del medico che lo prende in cura.
Tutti gli studi mostrano come, sempre più negli anni, sia calata la soddisfazione dei pazienti verso i propri medici e dei medici verso il proprio ambiente lavorativo. Vi è quindi una crisi sempre maggiore nel rapporto medico-paziente e sempre più medici vivono sulla propria pelle la sindrome del burnout.
In termini concreti si sono creati i presupposti per la nascita di movimenti oramai attuali (novax) e pseudoscienze varie che mettendo in discussione le conoscenze della comunità scientifica tutta mettono a rischio l’intera comunità.
L’importanza dell’epidemiologia
A differenza del passato non molto remoto in cui le patologie di natura infettiva e traumatica la facevano da padrone, oggi le patologie croniche costituiscono la principale causa di morte in tutto il mondo e, come se non bastasse, sono tra quelle più invalidanti e che gravano maggiormente sui sistemi sanitari nazionali in termini economici e di servizi.
La sfida principale per il medico del futuro prossimo non è, quindi, risolvere enigmi diagnostici, svelare complesse mutazioni genetiche o somministrare regimi terapeutici appositamente progettati. Piuttosto, dovrà essere in grado di lavorare o condurre team multidisciplinari che enfatizzano l’educazione dei pazienti, garantendo l’aderenza ai farmaci, la diagnosi e il trattamento di problemi concomitanti di salute mentale, anticipando potenziali rischi dati dalla malattia stessa e discutendo con il paziente stesso della terapia più idonea.
Quindi, fondamentalmente tre sono e saranno le capacità che dovrebbe sviluppare: il team working, competenze organizzative e la capacità di generare cambiamenti comportamentali nei pazienti e nei colleghi. Capacità queste che fanno dell’ascolto, del costruire rapporti di fiducia, dell’empatia e della propensione a delineare obiettivi comuni le propria fondamenta.
L’intelligenza emotiva (IE)
Da Salovey & Mayer viene definita come “l’intelligenza che coinvolge l’abilità di percepire, valutare ed esprimere un’emozione, l’abilità di accedere ai sentimenti e/o crearli quando facilitano i pensieri, l’abilità di capire l’emozione e la conoscenza emotiva, l’abilità di regolare le emozioni per promuovere la crescita emotiva ed intellettuale”.
L’IE ,quindi, ci permette di capire e gestire le emozioni permettendoci d’interagire efficacemente con gli altri, e se per Diamond le emozioni e le percezioni sono molto più importanti del potere e della logica nel trattare con gli altri, per Goleman l’IE è la conditio sine qua non della leadership.
Negli ultimi anni, sempre più sono stati gli studi sull’IE in ambito medico. Uno studio,ad esempio, ha mostrato tra i medici un punteggio relativamente basso nei test di valutazione per quest’ultima.
Un’altro studio, condotto questa volta,però, su medici ancora in formazione, ha evidenziato come in media questi presentavano livelli di IE maggiori rispetto alla popolazione generale, se pur la differenza non sia risultata statisticamente significativa.
Nello specifico, i punteggi più alti riguardavano il controllo degli impulsi, l’empatia e la responsabilità sociale mentre i punteggi più bassi si sono avuti sull’assertività, la flessibilità e l’indipendenza.
Altri studi hanno messo in evidenza d’altra parte come i medici nei primi anni di formazione presentassero, riguardo l’empatia, punteggi significativamente maggiori rispetto a quelli degli ultimi anni a fronte di punteggi più bassi di assertività.
In una revisione sistematica di 16 articoli che esaminavano l’IE si è riscontrato come punteggi migliori correlassero inoltre con migliori relazioni medico-paziente, empatia, lavoro di squadra e abilità comunicative.
Sembra, poi, che alti punteggi nei test correlino con la capacità del medico di far fronte allo stress rendendolo così meno propenso ad esperienze negative quali il burnout.
Conclusioni
Andando ad unire tutti i punti toccati precedentemente possiamo giungere a due conclusioni e cioè che lo sviluppo dell’IE in ambito medico è di fondamentale importanza e che nel percorso formativo del futuro medico si fa ben poco ad oggi per svilupparla e valutarla efficacemente, minacciando in questo modo la qualità dell’assistenza sanitaria.
Quindi, volendo dare una risposta al titolo possiamo concludere dicendo che sicuramente per fornire un’assistenza di alta qualità si richiede un alto quoziente intellettivo, che tanto l’attuale formazione medica cerca di sviluppare.
Ma è altrettanto vero che fare la giusta diagnosi e selezionare i giusti farmaci non bastano per creare un rapporto medico-paziente funzionale, una leadership efficace o ancor di più non forniscono le capacità per discutere sensibilmente di fine vita con un paziente terminale.
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