La resistenza batterica agli antibiotici è uno dei temi più complessi ed urgenti degli ultimi anni e, presumibilmente, anche di quelli a venire dato che ultime stime dipingerebbero il quadro drammatico di 10 milioni di decessi stimati entro il 2050 per malattie ascrivibili ad infezioni da batteri divenuti insensibili ai farmaci, prima perfettamente trattabili. Le motivazioni alla base di questa subdola ed insidiosa epidemia da “superbatteri” sono varie, alcune ben note altre meno, ciascuna con il proprio specifico contributo all’effetto finale. Le principali, comunque, sono:
- Pressione evolutiva: un uso massiccio di chemioterapici, sia su umani che animali, può portare alla selezione di ceppi batterici non sensibili
- Utilizzo di antibiotici non specifici o con una MBC (concentrazione minima battericida) insufficiente, che portano allo sviluppo di proteine di contrasto da parte dei patogeni sopravvissuti
Altre variabili sono meno note o addirittura da scoprire; una di queste, di cui lo studio si occupa, sembrerebbe essere legata alla temperatura minima nelle varie regioni degli USA. Secondo la ricerca, infatti, un innalzamento di questo parametro avrebbe degli effetti sulla resistenza dei batteri presenti nelle diverse regioni.
Obiettivi
Lo studio, condotto l’anno scorso ma pubblicato di recente su “Nature Climate Change”, si articola in diverse fasi che hanno come obiettivi complessivi:
- Capire se la temperatura locale possa influenzare la resistenza agli antibiotici in aree geografiche precise negli USA;
- Valutare se caratteristiche locali, come densità abitativa, tasso di prescrizione degli antibiotici, standard di laboratorio e popolazioni particolari di pazienti possano incidere in tutto questo
Metodi e risultati
I batteri presi in considerazione sono tra i più comuni agenti infettivi per l’uomo, capaci di sviluppare facilmente resistenze sia in comunità che in ambiente ospedaliero, cioè E. coli, K. pneumoniae (due Gram -) e S. aureus, un Gram +. A questi si aggiungono i fattori confondenti e le covariabili, ovvero resistenza, tipologia di paziente, località, temperatura minima (che meglio correla con la resistenza) e regimi terapeutici, i cui dati sono stati presi da fonti ospedaliere e di laboratorio sparsi nei diversi Stati.
Utilizzando particolari metodi statistici (modelli lineari semplici e multipli), i ricercatori hanno dimostrato che un incremento della temperatura minima si associava ad aumento della resistenza agli antibiotici sostanzialmente in tutti i patogeni.
Guardando ai dati grezzi, ad un aumento di 10°C nelle varie aree, si associava mediamente il 5,1% di resistenza (media) in più per E. coli, 3.4% per Klebsiella e 3.1% per Stafilococco. Queste osservazioni sono rimaste valide anche nelle osservazioni fatte in anni successivi e per tutti i tipi di antibiotici.
Aggiustando i dati grezzi per le variabili sopra citate, i valori diminuivano ma rimanevano comunque consistenti: 4.2% per E. coli, 2.2% per Klebsiella e 2.7% per Stafilococco. Quest’ultimo è stato poi testato con antibiotici specifici, risultanti sempre in un trend positivo con la temperatura.
A livello geografico, le aree con più alta prevalenza sono risultate quelle del Sud, probabilmente a causa della maggior quota di prescrizioni.

Le motivazioni che sottostanno a questo fenomeno non sono ancora chiare, ma i ricercatori hanno proposto alcune ipotesi:
- La temperatura più elevata faciliterebbe la trasmissione orizzontale di geni di resistenza, sia attraverso scambio che recupero di materiale genico libero (e.g. ESBLs, lattamasi originate da plasmidi);
- La temperatura modulerebbe positivamente la crescita batterica, incrementando la popolazione resistente a scapito di quella sensibile e permettendo infezioni più frequenti con tali patogeni.
- L’aumento della temperatura potrebbe influenzare il comportamento sociale delle popolazioni umane ed animali e quindi nascondere meccanismi extra-biologici.
Limiti e prospettive
I ricercatori sottolineano che il loro non è uno studio di ricerca eziologica, ma solo di inferenza ecologica, ovvero cercare di trovare associazioni sostenibili e validate tra variabili climatiche e resistenza antibiotica.
In questo caso, la temperatura sembra essere positivamente associata e potrebbe contribuire, in alcune aree estreme, dove il rischio aumenti di 10°C di T minima non è così inverosimile, ad un aumento dell’intensità del fenomeno.
In più, dato che l’effetto è cumulativo, ovvero si autoalimenta nel tempo, si potrebbe contribuire ad un’accelerazione verso la temuta era “post-antibiotica”. Ulteriori studi sono comunque necessari per precisare gli agenti causali e rafforzare le evidenze di questo primo lavoro.
FONTI| articolo Nature