Venerdì mattina, turno in day surgery, le stesse procedure ben calendarizzate ed equamente distribuite in questo luogo non lasciano spazio ad estro ed inventiva. E’ il grigiore della routine ad esser presenza rumorosa nel silenzio dell’ambiente ospedaliero.
Quel venerdì era previsto che vi fossero solo procedure per inserire dispositivi port.
Il port è uno strumento che si posizione sottocute e garantisce un facile accesso ad un vaso centrale. In una gara infausta al quale son certo nessuno di loro avrebbe mai voluto paretcipare, quella mattina l’impianto del dispositivo lo avevano vinto i pazienti della oncoematologia.

In un unico atto medico un significato ben più grande: per molti di loro era infatti l’inizio di una lotta contro un’entità nuova di cui nessuno osava pronunciarne chiaramente il nome.
Ci si barcamenava fra “K polmonare”, “formazione”, “macchia”, come fosse un demone da esorcizzare. Medici e pazienti non lo indicavano mai con il suo nome reale: cancro.
Il primo paziente, indicato su quello sterile elenco di nomi accanto al quale apporre una firma una volta condotto l’atto chirurgico, era un signore di mezza età con un carcinoma polmonare in stadio terminale. La cura chemioterapica sarebbe stata palliativa: la neoplasia aveva già interessato tutto l’emisoma destro rendendolo non funzionale.
“Come si chiama?”.
Nessuna risposta.
Il rapporto medico paziente, nel corso di tutto il percorso di laurea decantato come l’acme della pratica clinica ed essenziale perfino per un migliore outcome del paziente, era ora privo anche del solo contatto visivo.
Il medico di guardia lo chiese all’infermiere lì presente. Lesse il nome inciso sulla cartella clinica come una condanna. Io mi focalizzai, invece, sulla barella che aveva condotto il paziente sino a quel luogo paradossale. C’era era scritto, con un pennarello più o meno indelebile, le lettere “ONCO 308” e tanto bastò per imprimerlo nella mia testa.
L’intervento iniziò ed io assistevo attento alle manovre, per coglierne le finezze ed apprenderne i trucchi. Ad un tratto il mio sguardo cadde sugli occhi di onco 308, grandi, spalancati e fissi. Erano occhi di chi viveva quel momento nella sua dimensione, ben lontana dalla nostra.
Il viso scuro, le rughe accentuate, labbra serrate. Quelle mani, segnate dal recente passato di una vita trascorsa, erano ora strette, come a voler riafferrar qualcosa che tenta, dimenandosi, di scappar via. Non era, quella che stava vivendo, davvero la sua vita. Era finito lì per sbaglio, uno stupido scherzo del fato che aveva scelto proprio lui e proprio quella malattia.
I pazienti, quelli terminali e consapevoli dell’infausto destino al quale andranno inevitabilmente incontro, hanno negli occhi forte e chiara la domanda: “perché a me”?
La risposta che immaginamo sarebbe di per sè banale. Non c’è un perchè; è lo stocastico divenire degli eventi legati a piccolissime mutazioni nel corredo genetico cellulare che sotto l’influenza dell’ereditarietà e dei fattori esterni, come l’ambiente, hanno per risultato lo sviluppo di una neoplasia.
Banale, in realtà, non è la risposta fornita, ma l’aspettativa che essa sia esauriente. Cosa son queste, se non parole prive di senso alcuno?
E’ l’irrequieta ricerca di un “senso” la voglia che emerge dagli occhi di questi pazienti: un significato profondo che dia un margine di certezza o che almeno sottragga all’affanno della diagnosi.
Accettare che il fato sia stato solamente beffardo ho capito che sia impossibile.
Nel corso della procedura chirurgica, l’operatore inserì l’ago nella vena succlavia e ponendo il filo guida, si accorse di un grosso impedimento al passaggio circa in corrispondenza della vena cava superiore. Era il carcinoma, un ingordo parassita che nutrendosi delle forze di quell’organismo ospite se ne appropriava lento.
Dopo 30 minuti di tentativi, Onco 308 decise che nessuno avrebbe più dovuto toccarlo ed a stento concesse di ricucire la breccia chirurgica. Gli rimanevano pochi mesi e nessuno in quella sala gli aveva chiesto come stesse.