La Professoressa Ruth Itzhaki dell’Università di Manchester sostiene il ruolo del virus Herpes Simplex di tipo I (HSV1) all’origine della malattia di Alzheimer (AD): un suo risultato avvalora ulteriormente i precedenti studi circa il diretto coinvolgimento dell’agente infettivo nello sviluppo della demenza.
La malattia di Alzheimer: la demenza dai numeri endemici
Alois Alzheimer nel 1907 condusse un’autopsia su una donna affetta in vita da una particolare forma di demenza: nel tessuto cerebrale notò la presenza di caratteristici agglomerati e fasci di fibre aggrovigliati. Queste strutture che aveva osservato erano le placche beta amiloidi e i grovigli neurofibrillari di proteina Tau, le alterazioni anatomiche che sottendono la perdita di svariate funzioni cognitive, a sua volta dettata da un abbassamento dei livelli del neurotrasmettitore acetilcolina ed un danneggiamento delle cellule nervose in diverse aree cerebrali.
Quella del 1907 fu la prima descrizione di quella che oggi si identifica la principale forma di demenza, che secondo l’OMS affligge milioni di persone nel mondo, di cui seicentomila casi in Italia; una malattia che coinvolge a più livelli la sfera familiare e quella sociale determinando, direttamente e indirettamente, ingenti sforzi assistenziali ed economici.
Sul fronte della ricerca, il morbo lascia a tutt’oggi numerosissimi punti di domanda, annoverando molteplici investimenti di ricerca esitati in pressoché rovinosi fallimenti. Non da ultimo si ricorda il caso Pfizer, la nota multinazionale del farmaco che si è vista costretta ad abbandonare gli studi nel campo dopo anni di laboriosa ricerca.
Ergo: ad oggi sono a disposizione solo farmaci che rallentano il decorso e alleviano la sintomatologia, ma si è orfani di una terapia che curi la patologia a monte. Complice di questa situazione è senza dubbio la fisiopatologia ancora poco nota della malattia e l’impiego dei farmaci in via di sviluppo in pazienti ad uno stadio neurodegenerativo avanzato.
Attualmente dunque ci si avvale quasi unicamente di farmaci sintomatologici, mentre la sfida di sviluppare un vaccino o una qualsivoglia tipologia di immunizzazione alla proteina amiloide è in stasi o comunque si considera procedura eccessivamente ostica per i problemi legati alla struttura della molecola. Di notevole interesse e valore sono invece i biomarcatori della proteina amiloide, alleati preziosi per una diagnosi precoce della malattia, i cui segni si rendono evidenti nel SNC anni prima del sopraggiungere dei sintomi.
Herpes Simplex Virus 1 e la malattia
La ricerca resa nota negli ultimi giorni della Professoressa Itzhaki implicherebbe uno dei più noti herpes virus umani tra le cause scatenanti del morbo di Alzheime, l’Herpes Simplex di tipo 1.
L’agente microbico comunemente noto per le infezioni recidivanti a carico di cute, labbra, occhi e genitali (colpiti prevalentemente dal HSV di tipo 2) si manifesta in genere con lesioni dolorose a carattere eritematoso e assume talvolta carattere più grave in pazienti immunodepressi o in caso di encefaliti e meningiti.
L’Università di Manchester parte proprio da una scoperta (datata 1991) che avrebbe identificato il virus HSV1 nel cervello di molte persone di età avanzata; tesi corroborata poi nel ’97, quando si capì che la presenza del virus aumenta di 12 volte il rischio di sviluppare Alzheimer nei pazienti portatori di un gene noto come APOE4.
A sostegno della sua ipotesi, la Professoressa ricorda come sia inoltre stata dimostrata la presenza di proteina beta amiloide in colture cellulare infettate dal virus e sostiene come l’HSV1 possa identificarsi tra i principali fattori contributivi dell’instaurarsi della malattia.
In effetti, secondo il team guidato dalla ricercatrice inglese il virus sarebbe presente in forma latente nel cervello dell’anziano ed è soggetto a riattivazione in caso di stress o di un sistema immunitario indebolito. Un’attivazione ripetuta a sua volta genererebbe danni cumulativi, conducendo alla malattia nei soggetti portatori del gene APOE4.
La possibilità di un nuovo trattamento
Le conclusioni della ricercatrice sottolineano come tutte queste evidenze valutino un’associazione tra virus e malattia senza di fatto costituire una prova del reale ruolo eziologico dell’agente microbico.
Lei stessa suggerisce come potenzialmente definitiva l’eventuale dimostrazione dell’effettiva associazione tra AD e Herpes Simplex la riduzione dell’incidenza della demenza in questione a seguito di un trattamento anti-virale specifico.
Quel che è certo è che l’avvalorarsi crescente di quella che fino a ieri poteva trattarsi di una semplice intuizione, oggi pone basi sempre più solide per il perseguimento di nuovi percorsi di ricerca: ricerca che non riguarderebbe solo l’interesse del singolo, ma che ri riverbererebbe sulle aspettative dell’intera comunità.
Porterebbe sollievo ai famigliari, a cui si richiede un carico emotivo notevole, oltreché uno stravolgimento del quotidiano a cui non si è preparati né poi opportunamente sostenuti.
Il prospettarsi di una plausibile delucidazione dunque contribuisce alla speranza di arginare un decorso ad oggi del tutto inarrestabile.
Fonte| Alzheimer’s disease: mounting evidence that HSV is a cause – Ruth Itzhaki
A proposito, ne avevamo parlato anche QUI e QUI.