Il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa che nel mondo colpisce circa 10 milioni di individui. Oltre l’elevata incidenza, è ben nota la caratteristica ipocinesia che rende del tutto ineseguibile qualsivoglia compito possa richiedere destrezza.
Sebbene nelle fasi iniziali un certo grado di autonomia possa conservarsi nell’individuo, nei casi più gravi è necessario un supporto anche per i compiti più elementari.
Allo stadio attuale, non esiste una cura per il morbo di Parkinson. Tuttavia, da quanto si evince dalle pagine di Science Translational Medicine, la sua progressione potrebbe essere fermata, conservando un certo grado di autonomia nel paziente e mantenendo i sintomi “a bada”.
Nel paper pubblicato, infatti, i ricercatori dell’università del Queensland (Australia) sono riusciti con successo a fermare la progressione della malattia nel topo tramite somministrazione orale di una particolare molecola.
Il morbo di Parkinson
Il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa caratterizzata da tremore, rigidità e bradicinesia.
I caratteristici riscontri di questa condizione sono la progressiva perdita neuronale, accumulo dei cosiddetti “corpi di Lewy” all’interno delle cellule rimaste (depositi di alfa-sinucleina e ubiquitina) e flogosi. La base fisiopatologica che conferisce il caratteristico quadro sintomatologico consiste nella degenerazione dei neuroni presenti in una struttura mesencefalica, la substantia nigra, i quali secernono dopamina.
Perché una deplezione di questa sostanza genera il quadro tipico del parkinson? Perché la dopamina agisce da facilitatore nella trasmissione all’interno di particolari circuiti motori cerebrali. In condizioni normali, i nuclei della base (di cui la substantia nigra fa parte) pongono un’inibizione su questi circuiti; quando è necessario compiere una determinata azione, la secrezione di dopamina da parte di queste cellule rimuove il blocco facendo in modo che non vengano compiute azioni inappropriate.
Venendo meno la dopamina vi è continua inibizione su questi circuiti, anche quando è necessario compiere un’azione: ciò pone in essere il quadro di ipocinesia che caratterizza il parkinson.
Lo studio
Alla base di questo studio v’è l’osservazione da parte del team di ricercatori dei meccanismi d’interazione tra corpi di Lewy, deplezione di dopamina e flogosi.
L’alfa-sinucleina contenuta in questi aggregati molecolari (di concerto con la ridotta secrezione di dopamina) attiverebbe delle particolari molecole immunitarie, facenti parte della stessa famiglia dei Toll-like receptors (quindi i PRR o Patter Recognition Receptors), i cosiddetti NOD-Like Receptor contenenti pirina di tipo 3 (o NLRP3).
Particolarità di queste molecole è la formazione dell’inflammasoma, un complesso multiproteico capace di indurre e mantenere uno stato di flogosi nel tessuto in cui si trova ad essere.
Da qui, l’intuizione: se NLRP3 e l’inflammasoma fossero alla base della flogosi e della deplezione neuronale tipiche della malattia di parkinson, una molecola che inibente NLRP3 porterebbe ad una riduzione del grado di flogosi all’interno del tessuto celebrale e ad un miglioramento delle condizioni generali.
L’intuizione si è rivelata corretta. Somministrando alle cavie murine (affette da morbo di Parkinson) la molecola MCC950, un inibitore dei NLRP3, non solo è stata bloccata la formazione dell’inflammasoma, ma è stato possibile constatare un mitigarsi dei deficit motori e una riduzione della degenerazione dopaminergica nigrostriatale e della presenza di corpi di Lewy.
I sintomi erano talmente attenuati da ritenere che la progressione della malattia fosse stata bloccata.
I ricercatori hanno quindi concluso che, sebbene si possa essere ancora lontani da una terapia eradicante il morbo di Parkinson, in futuro un efficace alleato nel controllo della sintomatologia potrà trovarsi nei farmaci atti ad impedire la formazione dell’inflammasoma NLRP3 mediato.
Fonte| Inflammasome inhibition prevents α-synuclein pathology and dopaminergic neurodegeneration in mice