Il carcinoma della mammella: facciamo il punto della situazione

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Il carcinoma della mammella occupa il primo posto tra i tumori del sesso femminile, rappresentando circa il 25% del totale dei tumori delle donne, oltre che causare il 17% dei decessi totali per neoplasia.

Il rischio di contrarre la malattia riguarda, statisticamente, 1 donna su 11, mentre il rischio di morte per neoplasia alla mammella è meno esteso: circa 1 donna su 50 morirà per questa patologia.

Quindi, la mortalità è inferiore all’incidenza e questo risultato è stato raggiunto grazie alla disponibilità di strumenti in grado di garantire una diagnosi precoce, resi accessibili grazie ad una estesa offerta di screening. Anche l’avvento di nuove terapie, sia farmacologiche che chirurgiche, ha contribuito all’aumento della sopravvivenza nelle pazienti oncologiche.

L’insieme dei nuovi strumenti diagnostici e delle nuove soluzioni terapeutiche si uniscono quindi alla professionalità e competenza di diverse figure cliniche, dal radiologo al senologo, dall’oncologo all’anatomopatologo, dal chirurgo allo psicologo, in quello che viene definito PDTA.

Il percorso diagnostico terapeutico assistenziale (o, appunto, il PDTA) è infatti un algoritmo collaudato che permette di seguire ciascuna paziente, dallo screening alla diagnosi e l’eventuale terapia, garantendole una assistenza mirata in ciascuna fase della malattia. Tutto questo ha notevoli vantaggi, da quello più tecnico, cioè di permettere a più clinici di ragionare sui singoli casi e trovare le soluzioni miglior, sia da quello della paziente, che si cerca di assistere il più possibile anche dal lato umano.

Ma chi sono le pazienti a rischio?

Il tumore della mammella è una patologia rara nella donna giovane. L’incidenza aumenta a partire dai 35 anni, con un picco massimo compreso tra i 65 ed i 75 anni, con maggior frequenza nella razza caucasica rispetto alle donne afroamericane.

Esistono poi tutta una serie di fattori che aumentano il rischio di malattia, incentrati sull’equilibrio nella funzione dei vari ormoni della paziente. Ecco che allora menarca precoce, multiparità, parti plurimi dopo i 30 anni, menopausa tardiva o terapie ormonali a base di estrogeni o progesterone risultano essere condizioni che rispecchiano uno squilibrio ormonale che induce un rischio maggiore di sviluppare la neoplasia.

Allo stesso modo, l’obesità risulta un fattore di rischio, dato che negli ultimi anni si è dimostrato come anche il tessuto adiposo sia di fatto un tessuto ormonale in grado di produrre, attraverso complesse vie biochimiche, estrogeni. Ancora, il fumo, la dieta, specie se ricca di carne rossa, l’alcol se consumato in maniera eccessiva, sono tutti ulteriori fattori in grado di aumentare il rischio.

Per ultime, abbiamo una miriade di sostanze chimiche presenti nell’ambiente circostante che si sono dimostrate più o meno cancerogene anche per la mammella, ma la cui esposizione solo in condizioni del tutto eccezionali può diventare una reale minaccia per la saluta.

E poi esistono i fattori genetici…

Questa lunga rassegna di fattori di rischio commette il peccato di prende in considerazione solo la neoplasia “più classica”, tuttavia è importante considerare che esistono pazienti affette da mutazioni genetiche, nelle quali il cancro è una prospettiva molto più concreta, a prescindere da abitudini di vita e funzioni ormonali. In queste donne, la patologia insorge precocemente, in giovane età, solitamente inferiore ai 50 anni.

Da anni sono note sindromi congenite come la Li Fraumeni, la Cowden o la Peutz-Jeger, quadri clinici eccezionalmente rari che possono, tra le tante manifestazioni, portare anche al tumore della mammella. Ma la vera svolta degli ultimi 10-15 anni è arrivata con la scoperta delle mutazioni per i geni BRCA1 e BRCA2, capostipiti di questo filone di ricerca, oltre che altri ancora più recenti come PALB2. Il problema di queste mutazioni è che, qualora fossero presenti, portano le probabilità di sviluppare tumore al seno, nell’arco della vita, a valori superiori all’80%. E il rischio di tumore non è confinato soltanto al seno, ma anche utero e ovaio sono interessati.

Queste mutazioni, e quindi il delicato tema della predisposizione genetica, sono stati portati all’attenzione dell’opinione pubblica nel 2013, dopo che la celebre attrice Angelina Jolie, allora 37enne, annunciò la decisione di farsi asportare entrambe le mammelle a causa della mutazione proprio del gene BRCA1. In seguito, nel 2015, ha deciso di completare il percorso procedendo anche ad un secondo intervento di ovariectomia bilaterale, ovvero la rimozione di entrambe le ovaie.

Le ovaie, come già accennato, sono infatti il secondo grande bersaglio di questa mutazione, e quindi ad elevato rischio di mutazione. La stessa attrice ha tenuto a specificare come la decisione, così drastica, di ricorrere ad una chirurgia così aggressiva, non è stata il frutto solo della mutazione di BRCA1 ma anche dell’alta incidenza, nel suo albero famigliare, di tumori in queste due sedi, e come la scelta sia maturata insieme a diversi specialisti.

Quali sono allora le opzioni per prevenire?

Oltre alle ovvie raccomandazioni ormai universalmente accettate, ovvero di astensione da fumo e limitazione del consumo di alcol, unite ad uno stile di vita sano atto anche al controllo del peso, la medicina è particolarmente orientata in quella che è la prevenzione secondaria.

Innanzitutto c’è tutto il lavoro svolto dal punto di vista dell’educazione sanitaria, insegnando alle giovani donne la tecnica dell’autopalpazione del seno, che andrebbe praticata tra il 7° ed il 10° giorno del ciclo, nelle donne in età fertile, mentre in un giorno fisso prestabilito per le donne in età post-menopausale.

Dopo di che, il sistema sanitario nazionale offre uno screening a partire dai 50 anni fino ai 69, con cadenza ad ogni due anni, basato sulla mammografia, una pratica che sfrutta i raggi X per “fotografare” il tessuto mammario e trovare eventuali masse, calcificazioni, cisti o altre formazioni sospette e meritevoli di ulteriori approfondimenti diagnostici. In alternativa, qualora si voglia eseguire uno screening su una donna che non può (per varie ragioni) essere esposta a radiazioni, e possibile svolgere una ecografia, anche se con una specificità e sensibilità inferiori.

Esistono poi pazienti già operate per tumore, dove si vuole contrastare l’insorgenza di una recidiva, oppure pazienti in cui la probabilità di sviluppare tumore è superiore alla normale popolazione (ad esempio, pazienti operate per tumore all’ovaio, o con una familiarità molto forte in assenza di geni predisponenti), nelle quali l’offerta preventiva integra anche l’utilizzo di farmaci. In queste pazienti si usano farmaci come il Tamoxifene o il più recente Reloxifene, farmaci efficaci ma non privi di effetti collaterali anche importanti.

Un’altra tecnica che in questi anni sta suscitando un forte interesse è il Pap-brest. Il nome vuole richiamare in qualche modo il Pap-test in uso nello screening del tumore della cervice, in quanto, questa metodica, ne imita lo scopo. Infatti, il Pap-brest sfrutta una particolare apparecchiatura in grado di massaggiare, riscaldare ed applicare una leggera suzione al capezzolo per aspirare una piccola quantità di liquido, analizzandone poi il contenuto cellulare, e, proprio come per la cervice, permette di identificare precocemente cellule anomale in via di trasformazione neoplastica.

La prevenzione nel caso di positività per BRCA

La scoperta dei geni BRCA1 e BRCA2 è stata certamente un enorme passo avanti nell’approccio al tumore precoce della mammella, grazie anche alle nuove conquiste tecnologiche che rendono il test genetico accessibile con facilità e a costi relativamente contenuti per il SSN.

Tuttavia, la divulgazione mediatica di questa scoperta, ha aperto un forte dibattito, sia nel mondo scientifico che nella popolazione, esploso con il caso di Angelina Jolie. L’attrice infatti ha fatto scalpore per la sua scelta di ricorrere ad una metodica di prevenzione drastica, ovvero la mastectomia bilaterale preventiva. È certamente vero che oggi, grazie agli enormi progressi della chirurgia estetica ricostruttiva, l’impatto sul corpo femminile, e, di conseguenza, l’impatto psicologico, è notevolmente diminuito, tuttavia, questa scelta così radicale, continua a suscitare grandi polemiche.

In effetti, a favore di questa scelta c’è da dire che è una scelta radicale, che garantisce la mancata insorgenza del tumore. Se si rimuove la ghiandola senza residui, il tumore non ha più un substrato sul quale svilupparsi. Sarebbe bene considerare però cosa significano queste mutazioni, e cioè che il fatto di esserne colpiti non significa necessariamente sviluppare il tumore, bensì avere un fattore di rischio, con probabilità che oscillano dal 40 all’80% di sviluppare il tumore se si vive fino ai 70 anni.

Il trend è partito dagli USA ed è approdato nel nostro paese solo di recente. Importante aggiungere che attualmente non è un intervento coperto dal SSN, pertanto chi volesse farvi ricorso deve agire per via privata, quindi di tasca propria. Il primo intervento effettuato in Italia è stato fatto a Pavia nel 2011 e ha preso un po’ alla sprovvista persino gli oncologi, l’Aiom stessa rimane scettica su questo approccio.

Lo stesso professor Umberto Veronesi è risultato scettico. Ricordiamo come il professore sia stato un cultore della quadrantectomia quando tutti utilizzavano un intervento radicale e della tumorectomia (escissione del solo tumore) quando tutti avevano ormai adottato la quadrantectomia. Egli è sempre stato un cultore dell’approccio conservativo, e, pertanto, non poteva che essere contrariato all’idea di rimuovere interamente la mammella a prevenzione di un eventuale tumore, nemmeno di un tumore conclamato, considerandola come un passo indietro rispetto all’oncologia moderna, incentrata sulla massima conservatività possibile.

Bisogna però capire che, anche se non vi è certezza dell’evoluzione, le donne con BRCA1 o 2 positivo sono si donne che vengono seguite in modo molto più attente, però devono convivere con una “bomba a orologeria che non sanno né quando né se esploderà”, situazione che può essere psicologicamente difficile da sopportare. L’intervento libera totalmente dal dubbio.

Si capisce, allora, che qui si scontrano non solo pareri strettamente tecnici, specialistici, ma subentrano anche l’emotività, la psicologia della paziente, il suo vissuto e la sua personalità. Ecco perché questo è forse il terreno di dibattito più insidioso nell’ambito di questa neoplasia, perché l’aspetto puramente clinico cede il passo ad una serie di considerazioni puramente personali.

Alberto Caranti
Laureato in Medicina e Chirurgia ad Ottobre 2017 presso l'Università di Ferrara, dove ho discusso una tesi sulla chirurgia robotica in Otorinolaringoiatria. Attualmente lavoro come Medico di Guardia presso una struttura privata a Ferrara e collaboro con i reparti di ORL di Forlì e del SPDH di Faenza. Ho pubblicato oltre 20 fra articoli ed abstract congressuali inerenti medicina interna ed otorinolaringoiatria.