Dal dolore più ustionante, inumano, alle volte sboccia una speranza. Il racconto personale di Beatrice Lechner, pubblicato su New England Journal of Medicine, dice questo e pone interrogativi. A che punto siamo oggi con la donazione d’organi neonatale?
L’autrice, dando fondo alle provviste di sincerità più di quanto ci si aspetterebbe dal clinico più navigato quando questi si espone sulla terrazza di una rivista di fama internazionale, risponde.
La verità? Oltre l’emozione del racconto, si percepisce la confusione di un tema poco maneggevole.
Non è solo una storia
La dottoressa Lechner lavora in una unità di terapia intensiva neonatale.
K. è nata dopo una gravidanza portata a termine senza complicazioni; all’età di 5 giorni, in attesa di conoscere, senza poter capire, l’esito dell’ultima batteria di esami della sua vita, K. è sia una figlia che una paziente, malata di encefalopatia.
Negli anni, racconta Lechner, sono molte le conversazioni difficili che un medico deve affrontare. C’è uno spettro ampio quanto l’umanità di sfumature delle possibili reazioni alla notizia della morte di un figlio. Nella mente, da medico, categorizzi, razionalizzi, a modo tuo, ti prepari.
Eppure, nonostante gli anni di professione alle spalle, Lechner non nasconde lo stupore. In anni, mai aveva sentito il genitore di un neonato dire: “Vorremmo donare i suoi organi“.
Dallo stupore allo sconcerto. Non solo nessun altro, nell’unità, ha la più pallida idea di come procedere, ma la stessa dottoressa è in difficoltà. Questa storia, meglio, questa cronaca, potrebbe ricalcare gli interrogativi di molti studenti, come di molti professionisti. Perché le domande della dottoressa Lechner potrebbero essere anche le nostre.
Quali Linee Guida?
Innanzitutto, il team deve confrontarsi con la radice prima di ogni decisione successiva: la diagnosi di morte cerebrale in un neonato ha specificità proprie? Tutti gli organi possono essere donati o solo alcuni?
In effetti, anche organi con un certo livello di danno alle volte possono essere donati da un paziente neonato. I trapiantologi valutano caso per caso, tenendo conto sia del donatore che, naturalmente, del ricevente.
Quanto alla morte cerebrale nei neonati, scrive Lechner, tutto quello che sapevo a quanto pare era sbagliato. Non è tanto che non si possa diagnosticare la morte cerebrale nei neonati per ragioni fisiologiche, il fatto è che ci sono una serie di Linee Guide mal assortite, di scarsa fruibilità.
Le linee Guida del 1981 per la Determinazione della Morte si occupavano di pazienti dall’età di 5 anni in su; le linee guida redatte 1987 dall’AAP (American Accademy of Pediatrics), si applicano nei pazienti che hanno compiuto il settimo giorno.
Quello che succede poi è forse un esempio della misura della complessità del problema e della ristrettezza delle maglie amministrative: la banca degli organi, nonostante la volontà dei genitori, non può accettare degli organi di un paziente non dichiarato morto, ma senza una pratica standard riconosciuta e valida Lechner non ha modo di constatare la morte cerebrale del neonato.
È il networking, in questo caso, il deus ex machina della situazione.
Tramite il pediatra di guardia di un altro ospedale, vengono portate sul tavolo delle raccomandazioni datate 2011 della AAP per la determinazione della morte cerebrale dalla 37esima settimana di gestazione o più tardi; e se Lechener e colleghi ne parlano come di una “scoperta”, è perché è proprio così: gli stessi addetti della New England Organ Bank ne risultano all’oscuro.
La rarità di una scelta
Tanta fatica e latitanza di procedure è presto spiegata: dal 1988 al 2013, la media delle donazioni di organi da pazienti con meno di un anno di età negli Stati Uniti è stata di 100 casi all’anno. Nel New England, dove lavora la dottoressa Lechner, la media è di 1,5 casi all’anno.
Per quanto riguarda Italia, dove per legge si può determinare la morte cerebrale dopo la 38’ settimana di gestazione, è difficile trovare statistiche a riguardo.
L’esperienza della dottoressa Lechner, svoltata e portata a compimento una volta trovato un terreno di evidenze e pratiche solido, è un paradigma.
I primi a chiedere alla dottoressa da dove nasca tutto quel ginepraio di impossibilità a procedere sono i genitori di K. Soprattutto, chiede il padre di K, come mai a sollevare la questione è dovuto essere proprio lui?
Fattore umano
C’è un fattore umano nel non disvelare, da medici, questa possibilità? Un moto di empatia, forse una forma di tatto, una specie di ancestrale rispetto o una difficoltà a maneggiare un dolore così fragoroso?
Noi, cosa faremmo?
Uno studio pubblicato da Pediatrics nel 1999 riportava come, un’indagine svolta fra specializzandi in pediatria e medici pediatri, il concetto di morte cerebrale nell’infante è difficilmente interiorizzato ed applicato. Per questo, terminava lo studio, era necessaria una maggior educazione per poter meglio confrontarsi con un tema così difficile.
Se in alcuni casi questa formazione passa modellata dalle asprezze dell’esperienza, forse una sensibilizzazione dei professionisti può aiutare ambo le parti coinvolte. Da una parte i genitori, che al vertice del loro dolore trovano la lucidità di fare e condividere una scelta complessa; dall’altra i medici che devono trovare competenze e lucidità per essere agenti coscienziosi di una richiesta complessa che non li lascia indifferenti.
E, così facendo, appunta la dottoressa Lechner nelle ultime righe del suo resoconto, permettere che tragedie che frantumano ogni fibra emotiva possano, in qualche modo, rivivere in “successi agrodolci“.
FONTI| articolo NEJM; articolo Pediatrics
Leggi anche| Il regalo più bello, di Matteo Ricci