È una parola bellissima, sindemia. Presentato sulla rivista The Lancet nel report appena pubblicato e rinnovato, il concetto di sindemia vuole finalmente unire quello che anni di ricerche parallele hanno sempre studiato disunito. Fosse solo un capriccio accademico per creare una nuova categoria dal nulla, non avvertiremmo quel sentore di completezza e pragmatismo che permea tutto lo studio. Perché, ed è questo il punto, questa sindemia va fermata, e siamo ancora in tempo.
Una sindemia
Nel lungo report si parla di malnutrizione, in tutte le sue forme, dall’obesità alla denutrizione, la prima causa del diminuito benessere a livello globale. Si parla anche di cambiamento climatico, considerata una pandemia per via dei suoi effetti sulla salute di ogni essere umano e del sistema naturale da cui dipendiamo.
E sono così obesità, denutrizione e cambiamento climatico tre pandemie ma forse una sola: una sindemia, tre pandemie sinergiche.
Questa sindemia globale colpisce e influenza potenzialmente chiunque, in ogni regione del pianeta. Ecco perché parlando di Sindemia Globale parliamo della sfida più grande del ventunesimo secolo.
Ad oggi, solo Svezia, Germania, Brasile e pochi altri paesi hanno sviluppato delle linee guida per promuovere una dieta che sia ambientalmente sostenibile, pattern nutrizionali che aumentino la qualità della vita e che rispondano anche alle istanze poste dal cambiamento climatico.
Il prezzo da pagare
Rendendosi conto dell’ampiezza del problema, delle possibili pigrizie politiche ed egoismi individuali, uno dei primi argomenti presentati dagli autori è quello economico.
Il costo dell’obesità, a livello mondiale, è di 2 triliardi l’anno. Praticamente quanto il costo della violenza armata e del fumo: qualcosa come il 2,8% del PIL mondiale.
Le perdite economiche per la denutrizione sono calcolate attorno ai 3,5 trilioni l’anno. È tutta quella forza lavoro, quella disponibilità di energie e risorse che viene drenata da una condizione presentata troppo spesso come insanabile.
La Banca Mondiale ha calcolato che un investimento di 70 miliardi nei prossimi 10 anni in questa direzione potrebbe creare un ritorno economico di 850 miliardi. Conveniente e salutare.
E poi, che dire del cambiamento climatico, che ogni anno paghiamo perdendo il 10% del PIL mondiale. Numeri da capogiro. Ecco il prezzo dell’inerzia politica.
La fame e i suoi derivati
Il 2017 è stato un anno triste per le statistiche: la fame nel mondo ha continuato a crescere per il terzo anno di fila. E non è un conto spannometrico. Nel 2016 erano 804 milioni le persone denutrite, nel 2017 ben 821 milioni.
L’instabilità politica della regione Sub-Sahariana e l’avvicendarsi costante di conflitti sono uno dei più potenti driver della fame. Vale a dire, lottare per la fame è solo un fioretto elettorale se non corredato da un’azione seria e motivata di peace-building.
E se contiamo che l’instabilità climatica mina le possibilità di sopravvivenza di 2,5 miliardi di persone nel mondo (fra contadini, pescatori, possessori di terre e chiunque sopravviva a stretto contatto con l’ecosistema) ci rendiamo conto dell’estensione vera del problema.
“Sì ma io vivo in città, mica nei campi” si può obiettare.
Eppure i danni arrivano anche lì: l’incremento del diossido di carbonio nell’atmosfera sta impoverendo i cibi di nutrienti. Calcio, Potassio, Zinco, Ferro, tutti sempre meno presenti sulle nostre tavole. Sulle tavole di tutti.
D’altro canto, la produzione stessa di cibo è un vettore di malattia. Non solo sono meno presenti i nutrienti fondamentali, ma il consumo strabordante di cibi processati e industriali cresce ovunque, i cibi freschi costano di più e, banalità delle banalità magari, per risparmiare si opta per cibi economici ma ipercalorici.
Nel rapporto presentato dalla Commissione, che inizialmente doveva riguardare solo l’obesità ma che poi si è poi allargato come una macchia di china includendo un’area sempre più estesa di dinamiche, si parla anche di sistemi e sottosistemi.
Un’analisi ingegnosa del marchingegno che, fra leve e reazioni, sta comprimendo le possibilità del pianeta.
Paradossi e politiche
È sul finire dello studio però che, commenta un editoriale di presentazione del paper, si presentano i grandi paradossi affiorati nel corso dello studio.
Dei 22 punti presentati come regole di ingaggio per provare a cambiare lo stato delle cose (come incoraggiare una dieta sana e migliorare i processi industriali), qualcuno è già stato messo in atto. Eppure è cambiato poco. Perché?
Un paper di Schultz e Bonilla-Chacin prodotto per la Banca Mondiale, un case-studies che ha confrontato 9 paesi collocati in quasi ogni regione del mondo, ha prodotto una conclusione inaspettata.
Seppure questi paesi abbiano messo in moto una serie di provvedimenti e tattiche come quelle indicate dalla Commissione di The Lancet, è cambiato sostanzialmente poco, vuoi per una resilienza di sistema, vuoi per un’incapacità di mantenimento delle intenzioni.
I veri cambiamenti, le mutazioni nel genoma del sistema, quelle che possono condurre un’evoluzione verso un sistema-mondo più salutare e meno distruttivo, sono il risultato di altro.
Sono il risultato della tenacia di un intreccio di stakeholders più vari che, intessendo una costante capacità di mobilitare risorse e promuovere conoscenza, riescano a definire una politica che duri, e che valga.
Mai come oggi conoscenza è potere– poter cambiare le cose.
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