Uno studio condotto da ricercatori del Massachusetts General Hospital (MGH) e dell’Università di Cipro spiega che i glioblastomi riescono a resistere agli effetti dei farmaci antiangiogenici tramite il meccanismo della cooptazione.
I tumori cerebrali sono una categoria di neoplasie che interessa trasversalmente le diverse fasce d’età della popolazione e senza dubbio costituiscono un’entità estremamente delicata sulla quale intervenire chirurgicamente.
Si suole utilizzare la classificazione che separa quelli primari da quelli secondari o metastatici (quest’ultimi con incidenza 10 volte inferiore rispetto ai primari): tra i primari a sua volta possiamo riconoscere quelli di origine gliale (gliomi) dai non gliali.
Gli astrocitomi (compreso il glioblastoma) rappresentano circa il 75% di tutti i gliomi i quali a loro volta costituiscono una grossa fetta di tutti i tumori cerebrali.
Come esempio per gli astrocitomi abbiamo nominato non a caso il glioblastoma: si tratta del tumore più maligno e purtroppo più comune tra le neoplasie della glia. Rappresenta infatti il 12-15% delle neoplasie intracraniche e il 50-60% di tutti i tumori astrocitari. È composto da un eterogeneo insieme di cellule tumorali astrocitiche scarsamente differenziate e può svilupparsi da un astrocitoma diffuso o da uno anaplastico (glioblastoma secondario) anche se è più frequente si manifesti de novo (è in tal caso detto primario).
La fascia d’età più colpita è quella adulta (45-70 anni) e all’interno del SNC mostra spiccato e preferenziale tropismo per gli emisferi cerebrali con tipica combinazione fronto-temporale.
Purtroppo, si tratta di una delle neoplasie più difficilmente curabili con soli pochi casi di sopravvivenza oltre i tre anni. Tra le terapie possibili (importante distinguere quelle con intento realmente curativo da quelle palliative) annoveriamo la chirurgia, la radioterapia e la terapia farmacologica.
I farmaci antiangiogenici
Nel disperato tentativo di trovare una terapia efficace per debellare il temibile e mortale glioblastoma era stata percorsa anche la strada dei farmaci antiangiogenici, salvo trovarsi di fronte l’insorgenza di meccanismi di resistenza da parte del tumore.
La spiegazione del perché provare questo tipo di farmaci è semplice: un tumore maligno altro non è che un agglomerato di cellule con ciclo cellulare alterato che per questo crescono abnormemente , ma per farlo hanno bisogno di ossigeno e di sostanze nutritive veicolati dal sangue: in loro assenza la massa tumorale non può crescere oltre 1 mm^3 perché inizia a soffrire di ipossia. Tale sofferenza ipossica induce la produzione e il rilascio di VEGF (Fattore di crescita dell’endotelio vascolare) che dà il là al processo di angiogenesi e di vasculogenesi: per angiogenesi si intende l’espansione di una rete vascolare esistente, per vasculogenesi si intende invece la formazione di vasi a partire di precursori endoteliali.
Dunque, in virtù della vitale importanza che un’adeguata vascolarizzazione ha per i tumori, sempre più diffuso è l’utilizzo di farmaci (anche della classe dei recenti anticorpi monoclonali) in grado di distruggere i vasi che nutrono e che tengono in vita la massa neoplastica.
Lo studio
A tal riguardo i ricercatori del Massachusetts General Hospital (MGH) e dell’Università di Cipro hanno però scoperto (e il perché di tale fenomeno) che i glioblastomi sviluppano un efficiente meccanismo di resistenza ai farmaci antiangiogenici.
Nel loro rapporto pubblicato su PNAS, i ricercatori individuano nel fenomeno della cooptazione vascolare il responsabile di tale resistenza: il tumore cioè si adatta a crescere intorno a vasi preesistenti senza necessitare dunque della neoangiogenesi e risultando quindi indifferente ai farmaci somministrati. Un singolo vaso riesce a nutrire e far sopravvivere le cellule che si trovano all’interno di un raggio di 110 micrometri: proprio per questo le cellule tumorali formano dei ‘cappucci’ attorno ai microvasi.
Per comprendere meglio come le cellule cancerose interagiscono con il sistema vascolare durante la cooptazione i ricercatori hanno seguito la progressione del tumore nei modelli murini di glioblastoma scoprendo, grazie ad avanzate tecniche di imaging, che il trattamento di glioblastoma con il farmaco antiangiogenico cediranib ha aumentato la diffusione delle cellule tumorali lungo i vasi sanguigni esistenti e lontano dalla massa tumorale primaria. La crescita di questi manicotti cellulari neoplastici lungo il vaso ne determina una compressione causando uno stato di ipossia relativa, ipossia che come visto precedentemente scatena la neoangiogenesi.
Appare dunque evidente che il metodo migliore per bloccare la progressione del tumore (volendo agire sulla sua vascolarizzazione) sia bloccare sia la cooptazione che la neoangiogenesi: per quanto concerne la cooptazione i ricercatori hanno individuato il percorso di segnalazione Wnt come possibile regolatore, suggerendo che i farmaci che inibiscono tale percorso potrebbero bloccare il processo e sottolineando che bloccare prima la cooptazione prima di utilizzare i farmaci antiangiogenici sarebbe una strategia migliore rispetto alla somministrazione contemporanea di entrambi i farmaci.
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