Stefano Guicciardi è un medico in formazione specialistica in Igiene e Medicina Preventiva presso l’Università degli studi di Bologna e attualmente ricopre l’incarico di Presidente Nazionale di FederSpecializzandi – Associazione Nazionale dei Medici in Formazione Specialistica. Lo abbiamo intervistato su diversi argomenti di cui tanto si parla in merito alla formazione pre- e post- laurea.
Ciao Stefano! Partiamo da una domanda Quali sono le principali criticità della formazione medica post-laurea?
Ciao Domenico, grazie mille per la domanda, che apre molti fronti. Per schematizzare, le criticità possono essere riassunte in due ambiti: criticità quantitative e criticità qualitative.
Partiamo dalle criticità quantitative.
Sono quelle che più risaltano agli onori della cronaca e sono legate al cosiddetto “imbuto formativo”, lo storico gap tra candidati al concorso e numero di contratti di formazione disponibili. Basti pensare che l’anno scorso ci sono stati circa 16.046 candidati per 6934 contratti ministeriali. Anche conteggiando i contratti per il corso in medicina generale, il rapporto è più di 2 a 1. Bisogna considerare però altri due numeri, meno conosciuti, cioè il fabbisogno di specialisti espresso dalla conferenza Stato-Regioni, che nel 2018 è stato di 8569 unità, e il potenziale formativo dichiarato della rete universitaria-ospedaliera, di 11.100 posti (attualmente in via di ridefinizione). Questa è una condizione che dura ormai da più di cinque anni in cui sono state tradite ripetutamente le speranze dei giovani medici.
La situazione è quindi paradossale: servono medici specialisti, esiste un surplus di medici da formare accumulatosi negli anni, c’è una rete formativa potenzialmente capace di accoglierne di più di quelli attuali, ma non vengono fornite le risorse adeguate a finanziare abbastanza contratti.
Quindi che bisogna fare?
Non ci sono alternative, occorrono misure straordinarie e immediate per eliminare l’imbuto formativo da qui ai prossimi anni. Questo non vuole dire triplicare come per magia il numero di contratti, perché la rete formativa non sarebbe in grado di sostenerlo. Bisogna però garantire il raggiungimento del suo potenziale, finanziando il massimo dei contratti possibili ogni anno.
La volontà deve essere politica, le soluzioni si possono trovare anche di concerto con le Regioni per sbloccare il futuro di migliaia di giovani. Non si può continuare ad aumentare i contratti a dosi palliative, senza interventi davvero strutturali.
Il ministro Grillo ha di recente affermato però che il sistema delle “borse” è “decotto” e non più sufficiente, pertanto va cambiato.
Bisogna considerare che l’assimilazione del compenso a borsa di studio fornisce vantaggi economici come l’esenzione dall’IRPEF che se invece fosse applicata, con gli attuali scaglioni, porterebbe ad una tassazione più che doppia rispetto a quanto già si paga con le altissime tasse universitarie. Certo ci sono anche svantaggi, come lo sdoppiamento del sistema contributivo, ma su quelli, come chiediamo da anni, si può intervenire in maniera mirata senza stravolgimenti. Il punto, al di là dell’etichetta, rimane però economico: in un modo o nell’altro le risorse si devono comunque trovare e i medici in formazione devono essere adeguatamente retribuiti per le attività assistenziali che svolgono. Eppure, la retribuzione degli specializzandi è bloccata da 10 anni e i contratti aumentano a singhiozzo. Se cambiare vuol dire investire di più, ben venga, ma le cifre devono essere consistenti.
Si parla di formazione lavoro come soluzione. Che ne pensi?
Il contratto di formazione-lavoro non è una novità, anzi, la legge lo dice chiaramente da più di 20 anni: l’art. 37 del Dlgs 368/99, che inquadra il medico in formazione specialistica affermava infatti espressamente che “all’atto dell’iscrizione alle scuole universitarie di specializzazione in medicina e chirurgia, il medico stipula uno specifico contratto annuale di formazione-lavoro”. Questa denominazione è stata poi successivamente modificata tramite la legge 266 del 2005, che a partire dall’Anno Accademico 2006/2007 ha introdotto la definizione di “contratto di formazione specialistica”. Uno dei razionali era quello di evitare lo sbilanciamento formale verso lo status di studente o di lavoratore, realtà che devono coesistere senza che vi sia uno sfruttamento dello specializzando nei reparti.
Già oggi però gli specializzandi mandano avanti interi reparti.
Verissimo, purtroppo in alcune Scuole già succede. La soluzione non deve essere però quella di istituzionalizzare questa grave realtà perché “tanto così è”, ma far sì che ciò non avvenga più: attraverso l’utilizzo di strumenti di verifica e controllo, delle segnalazioni da parte degli specializzandi, facendo rispettare le leggi sull’orario di lavoro.
Come dice sempre il Dlgs 368/99, “in nessun caso l’attività del medico in formazione specialistica è sostitutiva del personale di ruolo”. Se una rete formativa non è in grado di erogare assistenza ai cittadini senza il supporto degli specializzandi è un grave problema.
Lo specializzando deve potersi formare senza che su di lui ricada il peso di anni di politiche surreali di programmazione del personale.
Prima parlavi anche dei problemi di natura qualitativa, era a questo a cui ti riferivi?
Sì, esatto. Si tratta di questioni che non vengono mai sollevate, ma sono davvero il cuore del problema. Molti medici fuggono perché bloccati nell’imbuto, altri perché pensano che il sistema non sia adeguatamente formativo, e questo è vero soprattutto per alcuni ambiti, come le chirurgie.
Sulla carta uno specializzando dovrebbe ottenere una progressiva autonomia, e ciò dovrebbe essere conseguente all’acquisizione graduale di competenze teoriche e pratiche.
All’atto pratico a volte invece si finisce solo a fare cartelle o, all’estremo opposto, guardie senza il personale strutturato.
L’altra questione cruciale è che al momento non ci sono strumenti adeguati a verificare questa crescente autonomia, perché mancano dei veri e propri curricula nazionali per ogni Scuola di Specializzazione.
E non stiamo parlando della semplice lista di attività da svolgere entro l’ultimo anno che purtroppo esiste ora, ma veri e propri manuali strutturati, in cui per ogni singola competenza vengano indicati gli obiettivi formativi, i processi di assessment e di valutazione, e le metodologie didattiche.
Ci puoi fare un esempio?
Per la Scuola di Chirurgia Generale, il decreto interministeriale 68 del 2015, che regola le Scuole di Specializzazione, in sole 2 pagine, riporta obiettivi generici come “lo specializzando deve aver svolto 325 interventi di piccola chirurgia di cui il 40% come primo operatore”.
Che vuol dire? Come pretendiamo che i nostri specializzandi diventino autonomi se nemmeno sanno quello che devono imparare? Nulla viene detto sulla tipologia di interventi, su come debbano essere insegnati e valutati e con quale progressione negli anni.
Nel Regno Unito, visto che ci piace tanto guardare all’estero, esiste invece un curriculum chirurgico nazionale di 351 pagine in cui vengono descritti il profilo dello specialista in uscita, il syllabus delle competenze generali e specialistiche strutturato per learning outcomes (divisi in pratici, teorici e comportamentali), l’elenco delle tecniche di insegnamento (sul campo e formali), l’elenco delle tecniche di valutazione (sul campo e formali) e la struttura del portfolio che certifica le competenze.
Se non adottiamo anche noi una simile prospettiva, ogni tentativo di dare responsabilità agli specializzandi, rendendoli indipendenti dal sistema formativo, sarà assolutamente aleatorio, non verificabile e disomogeneo sul territorio nazionale e per di più a rischio di contenzioso.
Solo così lo specializzando potrà dire “sulla carta mi deve essere insegnato questo, lo pretendo”.
Invece, in molte Scuole, quando uno specializzando chiede di fare lezione, di partecipare a un congresso, di seguire dei corsi, si storce il naso perché ci sono i reparti da mandare avanti e perché “tanto si impara facendo”. Non c’è niente di più lontano dal concetto di formazione.
Per questo bisogna stare all’erta verso formule molto spostate sull’ambito lavorativo perché in un’epoca in cui in cui la crisi di personale è sempre più evidente, gli specializzandi sono manodopera a buon mercato e la formazione rischia di diventare l’ultimo dei problemi.
Il sistema è senza speranza, quindi?
Al contrario, nonostante i grandi limiti, non dobbiamo dimenticarci da dove partiamo. Negli ultimi 15 anni è stato introdotto un contratto, è stato istituito il test di accesso nazionale, e nel 2017 con il decreto interministeriale 402 sono stati scritti e identificati per la prima volta i requisiti e indicatori di attività formativa e assistenziale per accreditare le Scuole di specializzazione di area sanitaria.
Ci sono ancora molti ambiti su cui intervenire, ovvio, e uno di questi è sicuramente l’introduzione un sistema di accreditamento sulla qualità formativa. Avere una Scuola insiste su reparti di eccellenza è inutile se non hai la possibilità di ruotarci o se la didattica è scarsa. Bisogna valutare la docenza non solo su parametri accademici, ma anche didattici; bisogna raccogliere i feedback degli specializzandi con strumenti capillari, come il questionario come quello lanciato quest’anno e da noi fortemente voluto, e fare in modo che la loro voce abbia un impatto positivo su ogni Scuola; bisogna lavorare sul controllo delle reti formative, per tutelare i medici in formazione ed evitare che si inseriscano strumentalmente strutture non idonee solo perché a qualcuno fa comodo che gli specializzandi ruotino in ospedali sottorganico.
La proposta di aprire la formazione al territorio o ad altri ospedali anche non universitari ti convince?
Contrariamente a quello che si pensa, le reti formative comprendono già la maggior parte delle strutture territoriali o policlinici non universitari. Ed è un bene sia così: da noi ancora si sentono spesso affermazioni come “ah ma sul territorio si impara meglio” o “solo l’università dà una formazione eccellente”. È una dicotomia stupida, molto utile per polarizzare inutilmente il dibattito e creare tifoserie senza senso. Uno specializzando deve formarsi prendendo il meglio che c’è di entrambe le realtà: non deve essere né un teorico puro incapace di operare o di essere autonomo clinicamente, né un “praticone” che snobba la produzione scientifica.
Il punto però è che ci vuole un’unica cabina di regia della formazione, non ci possono essere percorsi che vanno in autonomia o in parallelo.
L’allargamento della rete, poi, deve rispettare degli standard e deve essere giustificato in nome di una necessità formativa. Non possiamo inserire anche una struttura senza personale solo perché così riusciamo a formare qualche specialista in più, o peggio tenere aperto un ospedale solo grazie a medici in formazione, che sulle spalle hanno però la responsabilità di un professionista. O la formazione è di qualità o non è formazione.
Prima citavi il concorso nazionale, uno dei temi ricorrenti di ogni anno e per il quale si parla di modifiche nel sistema di accesso. Su cosa si deve intervenire?
Il test nazionale è stato una conquista per cui abbiamo combattuto con forza, che ha permesso di scardinare baronie e potentati. Fino a 5 anni fa alcuni direttori delle Scuole ti dicevano chiaramente che dovevi aspettare il tuo turno prima di entrare. Oggi per fortuna non è più così.
C’è da affrontare il tema degli abbandoni dei contratti, che però resta difficilmente eludibile: prima di tutto perché posti più ambiti e meno ambiti ci saranno sempre e questo vale per ogni sistema di selezione dato che le reti formative non sono infinte; poi ovviamente perché con l’imbuto formativo molti preferiscono darsi una chance anche in realtà mai considerate o meno appetibili piuttosto che rimanere a far guardie o sostituzioni. Senza dare giudizi di merito, si possono sicuramente studiare stratagemmi per mitigare questo fenomeno, come bonus di punteggio a chi tenta il test per la prima volta, ma il problema rimane a monte, nella carenza di contratti. Si faccia piuttosto un’operazione di trasparenza e i ministeri si impegnino a fornire numeri ufficiali, rimettendo a bando le risorse recuperabili dagli abbandoni.
Un’altra cosa fondamentale più volte richiesta è la pubblicazione prima del concorso, sia delle reti formative complete sia della valutazione delle Scuole da parte degli specializzandi. Non è normale che un futuro specializzando, che magari deve cambiare città, non sappia dove potrebbe svolgere la sua attività in caso di assegnazione del contratto.
Infine, ovviamente c’è la necessità di arrivare a una sola (o al massimo 3) macrosede concorsuale, in modo da garantire maggiori controlli, e di sincronizzare il test per la medicina generale.
Si parla anche di modello svizzero o tedesco, con assunzione diretta. Può funzionare da noi?
La Svizzera e la Germania hanno popolazioni, sistemi sanitari e impianti formativi molto diversi dal nostro; non hanno nemmeno il problema dell’imbuto formativo, per cui avendo un equilibrio tra posti in specializzazione e candidati, possono optare facilmente per modelli diversi, questo va chiarito.
Aspetti numerici a parte, come detto prima, il concorso nazionale permette in ogni caso una selezione uniforme e standard per tutti, non intaccabile da logiche clientelari. Se torniamo all’assunzione diretta questo rischio ritorna, è inevitabile.
Un’ultima domanda al volo: numero chiuso a medicina sì o no?
Alle attuali condizioni il mantenimento di un numero programmato è inevitabile. Il cosiddetto modello alla francese, che permetterebbe a tutti l’ingresso ad unno “biomedico” comune tra più facoltà (medicina, farmacia, biotecnologie) con un test alla fine, non solo sposta solo il problema un po’ più avanti, ma rischia di provocare grossi disagi alla didattica. L’anno scorso al test di medicina si sono predentati più di 67.000 candidati per circa 9800 posti. Anche supponendo che una parte si sia redistribuita su altri corsi non di area sanitaria, dove pensiamo di mettere tutti questi studenti? Sappiamo bene che le aule spesso sono inadeguate e ci sono attività di laboratorio che non si possono ovviare con lezioni in streaming, come si suggeriva. O si aumentano drasticamente fondi per docenze e strutture e contratti post-laurea o mi sembra un harakiri. Inoltre, se la selezione al test del primo anno dovesse basarsi su medie e soglie di sbarramento, significherebbe ritornare alla discrezionalità più totale dei professori, con baronie e potentati da evitare in tutti i modi.
Grazie mille Stefano!
Grazie a voi per la disponibilità e complimenti per la vostra pagina!