Il microbiota può modificare la terapia del Parkinson

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Pensate che i batteri siano qualcosa di esterno a noi, da evitare assolutamente per non essere vittima di fastidiose infezioni?

Niente di più sbagliato: l’uomo è anche (e qualche volta, soprattutto) popolato da batteri.
Il microbiota umano si definisce infatti come l’insieme dei microrganismi simbiontici che vivono all’interno del nostro organismo.

Questa definizione ci sorprende per tre motivi:

  1. Sono presenti dei microrganismi nel nostro corpo.
    Tra l’altro sono dei più disparati: si contano fino a 10 milioni di specie differenti tra batteri,virus e miceti che popolano diversi organi e tessuti (microbiota intestinale, orale, genitale, cutaneo, ecc).
    I batteri sono prevalentemente anaerobi.
  2. Sono microrganismi simbionti: ovvero, vivono in rapporto obbligato con altri organismi (in questo caso l’uomo) senza necessariamente arrecare danno/vantaggio all’organismo ospite.
    Questo è un punto cruciale poiché molte volte trascuriamo (o per meglio dire, non ci accorgiamo) della presenza di tutte queste specie fino a che non cagionano la nostra salute: si pensi alla colite da C. Difficile che si sviluppa allorquando è presente una condizione di disbiosi intestinale (magari a seguito di cicli prolungati e ripetuti di antibiotici).
  3. Il microbiota esiste perché svolge funzioni di importanza cruciale sulle quali la ricerca sta premendo fortemente per poter introdurre farmaci che possano modularlo o ripristinarlo quando esso è alterato.
    Le funzioni riguardano il sistema immunitario, lo sviluppo di patologie, l’assorbimento dei nutrienti e dei farmaci, omeostasi tra batteri patogenici e non patogenici, ecc.

Proprio nell’ottica di individuare le nuove funzionalità svolte dal microbiota umano, è stato pubblicato recentemente un articolo su Science da parte di Balskus, Rekdal e collaboratori dell’università della California che ha acceso i riflettori sulla possibilità che tali batteri possano “attaccare alcuni farmaci”, modificandone proprietà farmacocinetiche e farmacodinamiche.

Nello studio, i ricercatori si sono concentrati nell’esaminare le modifiche che il microbiota potesse apportare ad una molecola cruciale per il trattamento del Parkinson: la levodopa (profarmaco della dopamina).

La malattia di Parkison, infatti, è una sindrome extrapiramidale che individua il suo substrato anatomopatologico della degenerazione della sostanza nera(nella sua parte compatta) con progressiva riduzione dei neuroni dopaminergici e, da qui, della dopamina.

A tal proposito, almeno nelle fasi iniziali di patologia, l’uso di L-dopa è indicato nel paziente affetto da malattia di Parkinson poiché attenua la sintomatologia, reintegrando la dopamina depleta.

Eppure, nell’uso convenzionale della L-dopa, solo una quantità compresa tra il 1-5% riesce a raggiungere il cervello con, tra l’altro, un’estrema variabilità di tali percentuali da paziente a paziente.
Variabilità oltre che di dose, anche di efficacia clinica del farmaco.
Parte di questa eterogeneità è stata spiegata dagli studi biochimici: la L-Dopa viene, a livello periferico, convertita per azione della DOPA-Decarbossilasi in Dopamina che però, proprio perché ottenuta a livello periferico, non può portarsi al livello del SNC.
Tra l’altro, in tale forma periferica, è causa di spiacevoli effetti collaterali.
Per evitare tutto questo è attualmente consolidata la co-somministrazione di inibitori di DOPA-decarbossilasi(carbidopa o benserazide) insieme alla L-dopa.

Sebbene questo, resta una quota importante della variabilità nel metabolismo della L-dopa inspiegata, che è causa della differente efficacia clinica del farmaco tra i vari pazienti (con annessi effetti collaterali e mancata risoluzione della sintomatologia parkinsoniana).

L’intuizione dei ricercatori proviene da alcune osservazioni sperimentali in cui è stato dimostrato che l’assunzione di antibiotici da parte dei pazienti modifica il metabolismo (e da qui, l’efficacia) della L-dopa: i batteri che popolano il microbiota intestinale potrebbero, quindi, avere un ruolo nella variabilità di metabolizzazione.
Partendo perciò da questo assunto, i ricercatori si sono concentrati nello studiare il metabolismo di conversione da L-dopa a dopamina.
In realtà, solo un numero limitato di enzimi batterici è capace di ottemperare a questa reazione: però, la maggior parte di questi utilizza come substrato la tirosina (un amminoacido simile alla L-dopa) e, tra l’altro, è stato identificato un enzima appartenente ad un batterio usualmente presente nel latte (Lactobacillus brevis) che ha come substrati sia L-dopa che la tirosina.

Il gioco era dunque fatto.
Con l’ausilio dello “Human Microbiome Project”, i ricercatori hanno utilizzato i frammenti di DNA che codificavano per quel dato enzima per vedere se fossero esistiti dei batteri nel microbiota umano che condividevano quella determinata sequenza genica (e che quindi utilizzavano quell’enzima nelle loro reazioni metaboliche): i maggiori “match” sono ricaduti su Enterococcus faecalis, un “divoratore seriale” di L-dopa.
L’enzima preso in considerazione è chiamato Tirosin-decarbossilasi PLP-dipendente, o Tyr-DC.

A quel punto, sorgeva una domanda cruciale: se l’attività dell’enzima batterico era la medesima di quella che la carbidopa/benserazide andavano a bloccare, perché continuava ad esserci questa variabilità di metabolismo batterio-indotta?
I ricercatori hanno ipotizzato due scenari:

  • La struttura della cellula batterica impedirebbe al farmaco di penetrare, rendendo impossibile la sua azione
  • Benché la reazione catalizzata sia la stessa, esistono differenze di struttura terziaria e quaternaria tra un enzima umano e uno batterico, tale da impedire al farmaco di agire.

E questo, ovviamente, apre il campo alla sperimentazione di nuovi farmaci (o combinazioni di essi) che vadano a targhettare enzimi microbici (senza necessariamente distruggere le specie simbionti) per aumentare l’efficacia di farmaci sull’uomo.

Da analisi su campioni fecali, inoltre, i ricercatori hanno identificato un’ulteriore specie batterica, Eggerthella lenta, che è responsabile non solo della conversione di L-dopa in dopamina, ma anche della sua ulteriore conversione in meta-tiramina che si ritiene essere in parte responsabile degli effetti collaterali avvertiti durante il trattamento con L-dopa.
Chiaramente, questa scoperta, apre questioni che vanno ben oltre la mera implicazione riguardo il trattamento della malattia di Parkinson.
Infatti, verrebbe da chiedersi il perché tali batteri si siano adattati all’uso della dopamina(abbondantemente presente nel SNC) e quali siano le altre funzioni a questo correlate.

Ulteriori ricerche dovranno essere compiute, ma quello che si sta creando è uno scenario emergente dove il microbiota non è più uno “statico agglometato batterico” ma una viva popolazione con funzionalità e armi, che possono andare a vantaggio o svantaggio dell’essere umano.

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