Può la terapia genica ridare la vista?

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Esistono due grandi famiglie di patologie legate alla degenerazione dei fotorecettori retinici (Coni e BastoncellI):

-Le distrofie retiniche ereditarie (IRDs) sono un gruppo di malattie genetiche ereditarie, sono coinvolti i geni che codificano per i fotorecettori retinici (periferici) e portano ad una loro progressiva degenerazione. Sono responsabili di una progressiva perdita della vista fino alla cecità nei bambini e negli adulti.

-Le degenerazioni maculari legate all’età (AMD) rappresentano un altro gruppo di patologie che possono portare ad una severa perdita della vista sopra i 50 anni. Anche in questo caso abbiamo una perdita progressiva di fotorecettori retinici (centrali).

Epidemiologia

Circa 170 milioni di persone al mondo soffrono di AMD, circa 1 persona su 10 al di sopra dei 55 anni.

Per quanto riguarda le IRD, prendendo in considerazione la più comune del gruppo, la retinite pigmentosa, sono circa 1.7 milioni le persone interessate. Esse andranno verso la cecità intorno ai 40 anni.

Terapie attuali

Attualmente le opzioni terapeutiche per queste persone sono limitate all’impianto di un occhio elettronico collegato ad una videocamera. In pratica negli occhiali è posizionata una telecamera. Le immagini vengono processate da un microprocessore che le invia alla retina. Successivamente avviene la trasmissione attraverso il nervo ottico al lobo occipitale.

In questa soluzione terapeutica si evidenziano due problematiche importanti: in primis, l’intervento e gli apparati sono molto invasivi; in seconda battuta, la telecamera produce immagini di alcune centinaia di pixel, mentre la risoluzione dell’occhio umano è di milioni di pixel.

Lo sviluppo della terapia genetica

L’individuazione dei geni responsabili delle patologie degenerative non è semplice, considerando che nella sola retinopatia pigmentosa sono più di 250 le mutazioni genetiche interessate.

Il 90% di esse va a distruggere i coni, sensibili alla percezione dei colori in presenza di luce, ed i bastoncelli, sensibili al movimento, normalmente impiegati per la visione al buio.

Sono però risparmiate altre cellule retiniche, cioè le bipolari e le gangliari, che però sono insensibili alla luce.

Il successo della terapia genetica messa appunto dall’Università della California-Berkeley sui topi, si è basata appunto sulla capacità di rendere le cellule gangliari sensibili alla luce.

Nelle cellule fotorecettoriali, in superficie, sono presenti una serie di particolari proteine in grado di catturare un fotone e di crearne un segnale da trasmettere al cervello. Queste proteine innescano una cascata di trasduzione molto importante mediata dalle proteine G.

Nei bastoncelli è presente la rodopsina, invece nei coni sono presenti tre tipi di opsina, in grado di captare tre colori: il rosso, il verde ed il blu.

Inizialmente si è cercato il vettore per trasportare la componente genetica. La scelta è ricaduta su virus, in particolare un virus adeno-associato (AAV), in grado di infettare le cellule gangliari.

Inizialmente gli scienziati avevano optato per l’inserimento della rodopsina all’interno delle cellule gangliari. I topi che avevano i coni ed i bastoncelli degenerati, che erano diventati ciechi, improvvisamente riacquistarono la capacità di discriminare il buio e la luce, anche nel caso di luci molto tenue.

Il problema con l’utilizzo della rodopsina era che, pur essendo molto sensibile alla luce (più della opsina), era troppo lenta. Questo portava a problematiche nella visione, specialmente durante il movimento degli occhi e degli oggetti.

Gli scienziati allora provarono ad inserire come gene quello della opsina verde. Si rivelò essere la scelta giusta. Non solo si dimostrò essere più veloce di 10 volte rispetto alla rodopsina. I topi erano in grado di distinguere linee verticali da quelle parallele, linee distanziate e poco distanziate, linee in movimento e statiche. La visione era cosi nitida che gli scienziati poterono utilizzare un iPad invece che un display LED ad alta illuminazione.

Conclusioni

Isacoff e Flannery i due scienziati a capo della ricerca, pensano che sia possibile esportare questa tecnica negli essere umani, tra circa 3 anni. Una forte evidenza di questa affermazione, è dovuta alla recente approvazione da parte della FDA dell’utilizzo degli AAV come vettori in pazienti affetti da degenerazioni retiniche che non hanno altre alternative terapeutiche.

 

Fonti| Articolo ; Nature Communications

Matteo Ricci
Redazione | Frequento il 4° anno del corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia presso l'Università degli studi di Perugia. Amo la medicina ed è la mia passione, più specificatamente mi interessano molto la pediatria, le malattie infettive e l'immunologia. Nel tempo libero leggo sia libri scientifici che manga.