Nei giorni scorsi più testate hanno riportato la notizia della nuova classificazione ICD (International Classification of Disease) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in cui il Burnout per la prima volta viene considerata una patologia.
Vediamo cos’è il Burn Out, cosa non è e -soprattutto- cosa è cambiato rispetto al passato.
L’undicesima classificazione ICD definisce il Burnout come una sindrome frutto dello stress cronico sul luogo di lavoro mal gestito, un fenomeno occupazionale caratterizzato da tre elementi:
-sentimenti di esaurimento e di perdita di energie
-aumento della distanza mentale dal proprio lavoro o sentimenti negativi relativi alla propria occupazione
-ridotta efficacia lavorativa.
Nell’ICD precedente (ICD 10) era inserito nei fattori capaci di influenzare lo stato di salute e il contatto con i servizi sanitari, nello specifico nella sottocategoria dei problemi relativi alla difficoltà di ben gestire la propria vita quotidiana, definito come uno stato di esaurimento vitale. Oggi lo ritroviamo nei problemi legati all’occupazione o alla disoccupazione, accompagnato da una più corposa e dettagliata descrizione che ne traccia anche gli elementi caratterizzanti.
Dunque, una sindrome comunque non classificata nelle patologie, come invece fatto intendere da alcune fonti.
L’OMS specifica inoltre come il fenomeno sia da riferirsi solo all’area lavorativa e non altri ambiti della vita, in quel caso finiremmo in altre condizioni -anche- patologiche- come depressione, disturbo d’ansia, disturbo bipolare.
A che punto siamo
Il Burnout ha cominciato a essere oggetto di interesse medico-psicologico-sociale intorno agli anni ’70, solo negli ultimi tempi ha assunto però connotazioni sempre più definite –seppur rimangano sfocate-, fino ad attribuirgli una dimensione vera e propria come un fenomeno autonomo.
La ricerca negli anni si è orientata su due versanti: da un lato si è cercato di individuare quali siano le inclinazioni della personalità maggiormente a rischio, dall’altro quali siano i contesti e le situazioni più predisponenti.
Sicuramente sappiamo che tra le professioni più a rischio troviamo gli infermieri, insegnanti e poliziotti, professioni queste caratterizzate tutte da un comune denominatore che è l’aiuto verso l’altro (vengono difatti definite helping professions).
Anche i giovani medici specializzandi sono particolarmente esposti al rischio e ne abbiamo parlato in questo articolo.
Come introduce Gessica de Cesare nel suo ‘Burn out e mobbing’: “La scelta di un lavoro risponde sempre ad una motivazione psicologica e si fonda su aspettative che sono legate all’immagine sociale di una professione, alle possibilità lavorative presenti sul mercato, ai livelli di remunerazione, alle possibilità di carriera“.
Nelle professioni che possiamo definire ‘d’aiuto’,però, sempre più facilmente le aspettative non vengono soddisfatte: remunerazioni basse, concorsi bloccati, possibilità di carriera ridotte.
A ciò si aggiunge l’apparente necessitá di anteporre il bisogno di aiuto degli altri dinanzi al proprio, l’immagine di “salvatore” che ne deriva e gli eventuali sentimenti di impotenza che ne possono scaturire quando ci si scontra con situazioni di dolore e morte di fronte alle quali la propria immagine lavorativa viene posta in discussione, generando sensazioni di inadeguatezza, frustrazione e depressione.
Daniela Zicari, che si è occupata di Burn Out nel suo libro “Per un nuovo rebirthing” aggiunge alla nostra riflessione un punto importante quando sottolinea che uno dei problemi del burnout è che spesso gli operatori stessi non riconoscono di essere in una situazione di svuotamento e bruciatura e in questi casi è fondamentale il sostegno dell’equipe e il confronto e feedback con la stessa; inoltre è di fondamentale importanza l’intervento e la vicinanza, tramite la comunicazione, della famiglia. È importante, anche se il lavoro della professione d’aiuto assorbe notevolmente e fa sentire “buoni”, riuscire a ritagliarsi dei momenti privati, dove il lavoro non possa entrare. Di fondamentale importanza è dare spazio a svago e rilassamento anche se la tendenza sarebbe di occuparsi sempre degli altri e dei loro problemi.
Conclusioni
La lettura sull’argomento si sta arricchendo sempre di più, la classificazione ICD-11 per quanto importante non modifica l’evidenza, già nota a tutti precedentemente che il burn-out è una chiara entità clinica.
Conoscerla, definirla, parlarne e imparare a riconoscerla è fondamentale per avere i migliori strumenti possibili a disposizione per gestirne la sua progressiva espansione.
Non esiste una terapia se non l’attenzione a riconoscerne i sintomi e la capacità di attivarsi per evitare che diventi una condizione invalidante e che può drammaticamente modificare il proprio benessere psico-fisico.
Cura di se stessi, gestione dello stress, lavoro di gruppo, comunicazione pare siano fondamentali.
Inoltre, come si legge a conclusione di una riflessione pubblicata sul Journal of Psychopathology; “non è possibile dimenticare o sottovalutare che tutti i meccanismi che si innescano nell’operatore, si ripercuotono sugli utenti, i malati, che già nella loro sofferenza si trovano ad essere vittime inconsapevoli dell’operatore e della struttura”.
FONTI: Articolo 1, Articolo 2, Articolo 3