Una nuova molecola per limitare l’estensione dell’infarto

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Globalmente, possiamo tranquillamente affermare che le malattie cardiovascolari rappresentano la principale causa di morte in Europa ( superando, addirittura, le cause neoplastiche) e che l’incidenza delle medesime è in progressivo aumento considerando anche l’eterogeneo cambiamento dello stile di vita (aumento della sedentarietà, del fumo, di un’alimentazione “spazzatura”, ecc ). Si pensi, solo per citare qualche numero, che ogni anno in Italia circa 120.000 persone vengono colpite da infarto del miocardio.

L’INFARTO: QUESTO (S)CONOSCIUTO

Si parla tanto di infarto ma, in soldoni, cosa è un infarto del miocardio?

Si definisce come la presenza di una necrosi miocardica la cui causa è da ricercarsi in una ischemia miocardica.
L’ischemia, a sua volta, dipende generalmente da uno squilibrio tra la domanda del tessuto (in questo caso, miocardico) di ossigeno e il relativo delivery (a sua volta influenzato, ad esempio, dalla pervietà vasale, dall’emoglobina presente, ecc).
La causa in assoluto più comune di ischemia miocardica è rappresentata dalla occlusione di un vaso coronarico (arteria correlata all’infarto) a causa di complicanze (come rottura, emorragia) di una placca aterosclerotica.

Il fatto che circa il 50% dei decessi causati dall’infarto del miocardio avvenga prima di giungere in ospedale, ci fa capire quanto sia importante il tempo entro il quale diagnosticare la patologia per evitare l’estensione del tessuto necrotico: prendendo in prestito una dicitura dei cardiologi americani, “time is muscle”.

Sebbene sia vero che la morte cellulare riguardi, per definizione, quella zona di tessuto fornita dall’arteria coronarica interessata dall’occlusione, in realtà il tessuto limitrofo è altresì influenzato dal processo: la necrosi è una forma di morte cellulare interessata da flogosi con liberazione, pertanto, di mediatori dell’infiammazione.

Ne abbiamo riprova dal fatto che, ad ore di distanza dallo sviluppo della necrosi, il tessuto appaia infarcito di leucociti polimorfonucleati e altre cellule implicate nella flogosi.

Perciò, le conseguenze dell’area primariamente infartuata (non essendo quest’ultima “a tenuta stagna”) si ripercuotono sul tessuto sano limitrofo ( fenomeno dello “spettatore innocente” ).

Esiste un modo per poter “isolare” il tessuto necrotico con l’obbiettivo di salvaguardare il restante tessuto miocardico sano?
A questa domanda hanno cercato una risposta i ricercatori del centro biomedico “Fralin” per la medicina riparativa, rappresentati dal Dott. Robert Gourdie, in un articolo recentemente pubblicato sul Journal of the American Heart Association.

LO STUDIO

Il tutto prende avvio, in realtà, una decina di anni fa: Gourdie e il suo team identificarono una molecola avente un ruolo potenziale nel controllo delle aritmie cardiache che si verificano in seguito all’infarto.
E’ un peptide di 25 amminoacidi incorporato nel sito di legame della zonula occludens 1(ZO-1) alla connessina 43(Cx43) chiamato alpha-CT1.

In soldoni, è una sorta di “cerniera” che lega strutture proteiche ( la zonula occludens e la connessina ) con l’obbiettivo “saldare” la membrana di due cellule vicine.

A sorprendere i ricercatori però, è stata l’incredibile versatilità di questa molecola: infatti, aCT1 è anche implicata sia nel processo di riparazione delle ferite che nella cicatrizzazione.
Attualmente, sono in corso trials di fase 3 per l’eventuale commercializzazione della molecola per questi scopi (si pensi al ruolo positivo che potrebbe avere nel facilitare la riparazione dei tessuti in un piede diabetico).

Ma effettivamente, come agisce questo composto a livello molecolare?

Studi di spettrometria di massa su cuori murini hanno dimostrato che il composto incrementerebbe la fosforilazione della serina 368 di Cx43 portando ( se lo immaginiamo in una regione infartuata ) ad un aumento della densità giunzionale, “isolando” il tessuto infartuato rispetto alle aree sane.
A titolo informativo, lo studio ha anche determinato che solo i peptidi aCT1-Cx43 leganti sono in grado di produrre questo effetto e non quelli che, invece, legano sia ZO-1 che Cx43.

Nel contempo, è stato anche prodotto un peptide variante (aCT11), derivato dal rimaneggiamento di quello precedentemente discusso (aCT1).
aCT11 ha dimostrato un effetto cardio-protettivo quando somministrato non solo prima di un infarto (come aCT1) ma anche fino a 20 minuti dopo un infarto del miocardio.

Si spera di poter presto avviare dei trials clinici sull’uomo con lo scopo di introdurre questa molecola nel già vasto bagaglio farmacologico a disposizione per trattare l’infarto del miocardio (oltre a procedure interventistiche come l’angioplastica percutanea).

In attesa di ciò, i ricercatori si stanno concentrando nel modificare il modo in cui il farmaco giunge nell’organo bersaglio.
Infatti, si sta lavorando per inserire aCT1 all’interno di esosomi, ovvero vescicole extra-cellulari, che veicolerebbero il composto in modo molto più rapido ed efficace nella sede infartuata.

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