L’aspettativa di vita è uno dei temi centrali della medicina e della società moderne: da un lato in ambito medico-chirurgico si cerca di prolungare il più possibile, in condizioni possibilmente ottimali, la vita dei pazienti. Dall’altra parte, ognuno di noi si augura di poter vivere quanto più a lungo possibile, ipotizzando soglie di età fino a qualche decade fa inimmaginabili anche per i più ottimisti.
Non è, infatti, raro il riscontro di ultracentenari o di ultraottantenni ricoverati in un reparto di cardiochirurgia in attesa di una nuova valvola cardiaca,ad esempio.
Il nostro Paese vive tali situazioni in prima persona dal momento che la fetta di ultrasessantacinquenni (per pura convenzione età indicata come inizio dell’”anzianità”) si ingrandisce sempre di più, promettendo di diventare tra qualche anno quella più rilevante numericamente.
In tale contesto assumono, dunque, grande rilievo tutti quegli accorgimenti inerenti allo stile di vita che possono aiutare ad aumentare l’aspettativa di vita, come alimentazione, attività fisica, astensione da fumo e alcool.
Ma cos’è di preciso l’aspettativa o speranza di vita?
È un indicatore statistico che esprime il numero medio di anni della vita di un essere vivente all’interno della popolazione indicizzata: in pratica, è usata per indicare il numero medio di anni che ogni neonato ha la probabilità di vivere. È ,però, necessario sottolineare come l’allungamento dell’aspettativa di vita alla nascita, ad esempio, può essere la semplice conseguenza della riduzione dei tassi di mortalità infantile, dovuta a migliori condizioni igieniche e sanitarie, senza che vi sia effettivo allungamento nella soglia di vita complessiva delle persone. Più correttamente, dunque, possiamo affermare che si tratta di un indice utile per valutare lo stato di sviluppo di una popolazione.
UN’INTENSA ATTIVITA’ NEURONALE PUO’ ESSERE NEMICA DI UNA LUNGA SPERANZA DI VITA?
“Use it or lose it” è un simpatico e famoso gioco di parole usato per sensibilizzare ad esercitare in modo costante e costruttivo il nostro cervello per combattere l’invecchiamento cerebrale e per ridurre il rischio di ammalarsi di malattie neurodegenerative o almeno per ritardare l’insorgenza di demenza senile.
Un recente studio portato avanti da un gruppo di ricercatori della Harvard University guidati da Bruce Yankner e i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature sembrerebbe clamorosamente smentire tutto ciò (in realtà, poi vedremo che non è esattamente così).
Yankner e colleghi studiano da anni i fattori fisiologici che sono collegati a una minore durata della vita e recentemente si sono concentrati sull’ambito cerebrale di tale tematica analizzando i meccanismi di attivazione e disattivazione dei geni nei tessuti cerebrali donati post-mortem da molte centinaia di soggetti deceduti tra i 60 e i 100 anni di età.
Il dato emerso è che i soggetti più longevi avevano un’attivazione più bassa del normale nei geni collegati all’eccitazione neuronale e alle funzioni delle sinapsi.
Gli autori hanno poi cercato conferma di questo risultato sia in altri campioni di tessuto cerebrale prelevati post-mortem ultracentenari sia in esperimenti su topi geneticamente modificati e su vermi nematodi della specie Caenorhabditis elegans: tali test hanno rivelato che in effetti se si altera INTENZIONALMENTE l’eccitazione neurale delle cavie animali, si influenza la durata della loro vita che diminuisce proporzionalmente, quasi come se ci fosse un esaurimento funzionale ed energetico indotto dall’aumentata attività neuronale.
A livello molecolare, molta parte di questi meccanismi di regolazione del funzionamento neuronale si deve a REST, una proteina tipica dei mammiferi e che agisce come un interruttore. Se si blocca l’attività di REST nei topi, o delle sue proteine equivalenti nei vermi nematodi, chiamate SPR-3 ed SPR-4, l’attività neurale aumenta, e topi e vermi muoiono relativamente giovani. Viceversa se l’attività di REST o delle sue equivalenti aumenta, l’attività neurale diminuisce, e questi animali vivono di più.
Questo legame è dovuto in parte al fatto che la minore eccitazione neurale indotta dall’iperespressione e dall’iperattività di REST attiva a cascata una famiglia di proteine coinvolte nella regolazione della durata della vita (negli esseri umani il ruolo di questo via biochimica è ancora controverso!): si tratta delle stesse proteine che si possono attivare con una dieta a basso contenuto calorico, il che apre a tutta una serie di discorsi legati alla straordinaria importanza di una sana ed equilibrata alimentazione, lontano da tutti quegli accessi calorici che soprattutto la società moderna occidentale spesso ci pone di fronte.
Questi risultati sui modelli animali trovano riscontro negli esseri umani: le cellule cerebrali dei centenari hanno livelli di REST molto più elevati rispetto a quelli di persone decedute a 60 o 70 anni.
Nonostante questo, trattandosi di studi che necessitano di ulteriori approfondimenti e di applicazioni sull’uomo e soprattutto essendo stata la proteina REST manipolata nei suoi valori in laboratorio, non bisogna convincersi che l’inoperosità e l’inattività cerebrale siano positive per la nostra salute.
Anche perché resta da valutare come svolgere attività per antonomasia costruttive e benefiche per il nostro cervello, come studiare, leggere, ingegnarsi, abbia influenza sulla proteina REST.
Quindi, intanto… USE IT OR LOSE IT!
FONTE: Articolo 1