Le “pillole per il cuore” 2019 secondo il New England Journal of Medicine

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Il New England Journal of Medicine, una delle principali e più importanti riviste peer review ad occuparsi di medicina clinica, ha deciso di pubblicare, come ogni anno, una rassegna dei 12 più importanti articoli pubblicati nel corso del 2019 e noi de “La medicina in uno scatto” vogliamo augurarvi un buon anno nuovo ricominciando proprio da qui, illustrandovi i migliori traguardi ottenuti lo scorso anno in materia di cardiologia.

1) La fibrillazione atriale di recente insorgenza va sempre cardiovertita? 

Lo studio si proponeva di valutare gli effetti della cardioversione (ovvero il ripristino di un ritmo cardiaco sinusale) ritardata (dopo 48 ore) rispetto a quella immediata (all’ingresso in Pronto Soccorso), su una coorte di 437 pazienti con fibrillazione atriale stabile ma sintomatica di durata non superiore alle 48 ore.

I due gruppi sono stati dunque studiati in maniera diversificata, in particolare nel primo è stata effettuata subito la cardioversione elettrica o farmacologica con flecainide, mentre nel secondo sono stati dati farmaci per mantenere la frequenza cardiaca al di sotto dei 110 bpm e poi rimandati a casa.

A 4 settimane, il 94% dei pazienti del primo gruppo aveva ancora un ritmo normale, mentre nel secondo gruppo si è arrivati al 91%, indicando che i due approcci sono essenzialmente equivalenti.

Lo studio sembrerebbe risolvere una vecchia controversia tra i fautori della cardioversione precoce e quelli della tardiva, oltre che avere risvolti in termini di riduzione dei tempi di degenza in PS, ma va ricordato che i pazienti elegibili per un approccio “wait and see” sono particolari, in quanto devono essere emodinamicamente stabili e non avere episodi di lunga durata.

2) Ha senso rivascolarizzare anche arterie non ostruite in pazienti con infarto miocardico causato da coronaropatia aterosclerotica multipla?

In questo studio randomizzato, chiamato COMPLETE, 4041 pazienti con precedente infarto miocardico STEMI sono stati suddivisi in due gruppi in rapporto 1:1:

– Il primo gruppo è stato trattato con angioplastica percutanea solo della placca colpevole, ovvero quella responsabile dei sintomi;
– Il secondo gruppo è stato trattato con la stessa tecnica, ma estesa a tutti i rami arteriosi coronarici quando si fosse dimostrata una stenosi critica (almeno 70% del diametro e frazione della riserva di flusso inferiore a 0,8).

I risultati dopo un follow up di 3 anni, hanno dimostrato che, nonostante non vi sia una significativa riduzione in termini assoluti della mortalità totale dovuta a cause cardiovascolari o per tutte le cause, si è comunque assistito ad una:

Diminuzione del rischio di un nuovo infarto miocardico di circa il 25% nel secondo gruppo, quindi di mortalità legata a questa causa;
Diminuzione di circa il 50% del rischio di IDR (ischemia-driven revascularization), ovvero di subire una nuova rivascolarizzazione nel momento in cui vi siano sintomi e anamnesi suggestive di ischemia, ma in assenza di una diagnosi strumentale vera e propria di infarto del miocardio.

Considerando, inoltre, che la procedura di rivascolarizzazione completa è sicura e relativamente semplice, è plausibile che la vedremo inserita nelle prossime linee guida internazionali per il trattamento interventistico dell’infarto del miocardio, sebbene ancora non vi siano indicazioni precise in merito.

3) Un cuore preciso come uno smartwatch: uno screening per la fibrillazione atriale? 

Questo studio ha visto il reclutamento di 419297 partecipanti, senza storia nota di fibrillazione atriale, ai quali è stato permesso di monitorare i battiti cardiaci con un Apple Watch ed un’app dedicata, così da ricevere una notifica nel momento in cui si fosse rilevato un ritmo anomalo. La notifica è stata inviata anche al centro medico coninvolto nello studio, il quale a sua volta avrebbe inviato un patch elettrocardiografico per posta, da applicare per 7 giorni consecutivi.

Lo scopo di tutto ciò è stato di valutare la capacità predittiva del dispositivo nel’individuare precocemente ed accuratamente la fibrillazione atriale, confrontandola con i dati ottenibili dall’ECG, il “gold standard” per la diagnosi.

Nonostante tutti i noti limiti del caso, tra cui la giovane età della maggior parte dei partecipanti che non li rende candidati ideali, e l’alto tasso di abbandono, i ricercatori sono riusciti ad ottenere dati sufficienti per confortare l’ipotesi iniziale: di tutta la popolazione studiata, lo 0.52% ha ricevuto una notifica di ritmo irregolare e di questi, un terzo ha ricevuto e restituito i patch Ecg, ricevendo la diagnosi di fibrillazione atriale. È stato così possibile dimostrare che lo smartwatch ha permesso di identificare il 71% dei fibrillanti.

Alla luce di ciò, dovremmo tutti precipitarci al primo rivenditore ed acquistare l’ultimo ritrovato di casa Apple?

Stando al commento di Edward W. Campion, MD e John A. Jarcho, MD, stilato a completamento dell’articolo, “il messaggio principale non è la tecnologia impiegata, ma nel come e nel perché lo studio è stato eseguito. Le persone indossano tecnologie simili da anni, ma solo ora ne vediamo il potenziale nella diagnosi di aritmie”; in più “attualmente hanno più consapevolezza del legame tra ictus e fibrillazione” quindi “vogliono essere rassicurate da un monitoraggio senza sforzi e tecnologicamente avanzato”. Indossabili sì dunque, che si configurano come potenziali e potenti mezzi ausiliari al medico oltre che al ricercatore; chissà se, tra non molto, saranno loro i nuovi protagonisti nello screening cardiologico?

FONTI| Notable articles of 2019 by NEJM

Andrea Tagliolini
Sono studente di medicina al 6° anno presso l'Università degli studi di Perugia. Il mio mantra di vita è una frase di Richard Feynman, il noto fisico: "Il primo principio è che non devi ingannare te stesso e te sei la persona più facile da ingannare".