Un prelievo di sangue per ottenere informazioni sulla diagnosi e sulla prognosi della malattia d’Alzheimer, questa è l’ambizione di uno studio recentemente apparso su Nature Medicine.
I biomarker della malattia d’Alzheimer
Secondo la classificazione proposta da Jack e collaboratori nel 2018 (classificazione A/T/N) i biomarker della malattia d’Alzheimer si dividono in tre categorie:
- A di amiloidosi, valutata tramite liquor o PET amiloide
- T di patologia tau, valutata tramite liquor o PET tau
- N di neurodegenerazione, valutata tramite liquor, PET FDG o RM
Si può dunque notare come le indagini diagnostiche più rappresentate siano la puntura lombare per il dosaggio liquorale delle proteine d’interesse, e la PET per lo studio di proteine patogene o del metabolismo cerebrale grazie all’uso di radiofarmaci diversi.
Tali indagini hanno tuttavia limiti non trascurabili: l’invasività, la ridotta disponibilità e l’elevato costo. Ciò ha dunque spinto i ricercatori a valutare negli ultimi anni la possibilità di ottenere biomarker Alzheimer-specifici tramite un semplice prelievo ematico.
“Il tempo e le risorse richieste dallo screening tramite PET e liquor dei possibili partecipanti ai progetti di ricerca ne limita l’arruolamento. Lo sviluppo di un test ematico ci permetterebbe di valutare rapidamente un gruppo più esteso e più vario di persone che vogliono partecipare ai trial” – Richard J. Hodes, direttore del NIH’s National Institute on Aging (NIA).
P-tau181 plasmatica: il possibile candidato
Il gruppo di ricerca guidato dal Dott. Hansson della Lund University si è dunque concentrato su una proteina già validata a livello liquorale, P-tau181, dosandone tuttavia i livelli plasmatici e ponendosi diversi interrogativi: P-tau181 plasmatica può essere impiegata come marker di patologia tau? Può identificare la malattia d’Alzheimer e distinguerla da processi neurodegenerativi non-Alzheimer? E infine, può predire la futura conversione a demenza?
P-tau181 plasmatica e i biomarker di patologia tau
Per comprendere la possibilità di usare la proteina P-tau181 plasmatica nella diagnosi della malattia d’Alzheimer i ricercatori sono partiti confrontandola con i due biomarker attualmente approvati per la categoria T della classificazione A/T/N: la proteina P-tau liquorale e la PET tau.
Dal confronto è innanzitutto emerso che, nei pazienti amiloidosi positivi, P-tau181 plasmatica correla con la corrispettiva proteina liquorale, suggerendo che possa anch’essa riflettere l’iperfosforilazione della proteina tau a livello del SNC.
Sempre nei soggetti amiloidosi positivi è inoltre emersa un’interessante correlazione tra i livelli plasmatici di P-tau181 e la captazione alla PET tau in regioni d’interesse, quali i lobi temporali e parietali. In particolar modo i ricercatori hanno osservato come a maggiori livelli plasmatici di P-tau181 corrisponde una maggiore deposizione cerebrale di proteina tau iperfosforilata, come evidenziato dalla PET tau.
Tale dato si rispecchia anche nell’evidenza che nei soggetti cognitivamente intatti i livelli plasmatici di P-tau181 sono associati alla deposizione di tau iperfosforilata in zone precoci del processo patologico (Braak I-IV), mentre nei soggetti sintomatici (MCI o AD) i livelli plasmatici si associano ad una deposizione in zone più tardive (Braak III-VI).
P-tau181 plasmatica e amiloide
Trovata une forte correlazione tra P-tau181 plasmatica e gli altri biomarker di patologia tau, i ricercatori hanno indagato l’associazione con l’altra proteina fondamentale del processo patologico della malattia d’Alzheimer, l’amiloide-beta.
Dalle analisi è emersa anche in questo caso una correlazione tra livelli plasmatici di P-tau181 e captazione alla PET amiloide, sebbene inferiore rispetto a quella riscontrata per la PET tau.
Siccome secondo la cascata dell’amiloide l’iperfosforilazione della proteina tau avverrebbe solo successivamente all’accumulo dell’amiloide-beta, i ricercatori si sono però chiesti se l’incremento di P-tau181 plasmatica fosse un fenomeno precoce o piuttosto tardivo.
A tal fine hanno dunque stabilito a quale soglia di captazione alla PET amiloide corrispondessero i livelli plasmatici di P-tau181 considerati anomali, riscontrando un valore vicino a quello di positività della captazione. In altre parole, i livelli di P-tau181 si elevano poco dopo il riscontro di un deposito cerebrale anomalo di amiloide-beta, dato che suggerisce il suo impiego nella diagnosi già delle fasi precoci di malattia d’Alzheimer.
P-tau181 plasmatica e diagnosi differenziale
Stabilita l’associazione con la patologia amiloide, i ricercatori si sono dunque chiesti se P-tau181 plasmatica potesse avere un ruolo nel distinguere la malattia d’Alzheimer da altri processi neurodegenerativi dementogeni.
A tal fine hanno confrontato i livelli plasmatici di P-tau181 tra i soggetti amiloidosi positivi e quelli negativi. Dal confronto è emerso che livelli elevati di P-tau181 identificano i soggetti amiloidosi positivi, con una performance solo di poco inferiore rispetto ai marker di patologia tau già validati.
Ma i ricercatori hanno riscontrato una differenza nei livelli plasmatici di P-tau181 non solo tra chi aveva evidenza di patologia amiloide e chi no, ma anche negli stessi amiloidosi positivi, gruppo in cui vi è una differenza statisticamente significativa tra i soggetti cognitivamente sani e quelli sintomatici (MCI e AD).
Tale dato suggerisce dunque che P-tau181 plasmatica può essere una valido biomarker non solo per discriminare i soggetti con malattia d’Alzheimer ma anche per valutarne il rischio di progressione a demenza.
Conclusioni
Lo studio sembra dimostrare un possibile ruolo della proteina P-tau181 plasmatica nell’identificazione della patologia tau, con una performance simile a quella dei marker già in uso. Se ciò venisse confermato potrebbe facilitare l’arruolamento dei pazienti nei trial, la valutazione dei fattori di rischio, nonché la misura dell’efficacia di futuri trattamenti quando questi saranno disponibili.
Attualmente però i risultati sono stati ottenuti su un numero molto limitato di pazienti e sono necessari ulteriori studi che ne confermino il potenziale in setting più estesi, anche di carattere clinico.
Fonti | Studio Nature Medicine