A cura della dott.ssa Federica Ranieri

Decine sono le notizie sul COVID-19 che ogni giorno ci bombardano e riempiono la nostra quarantena. Fra queste, spiccano quelle riguardanti i diversi farmaci che vengono testati per trattare i pazienti che necessitano di ricovero ospedaliero. Purtroppo, tutto sembra essere utile, ma niente davvero efficace.

Perché vengono chiamate in causa terapie anche molto diverse fra loro?

Come in tutte le situazioni in cui ci si trova a combattere un nemico sconosciuto, nella lotta al Sars-CoV-2 il primo approccio è stato quello di cercare nel passato per valutare l’efficacia di farmaci già conosciuti. Da qui l’utilizzo della idrossiclorochina, noto antimalarico, del tocilizumab, molecola impiegata nell’artrite reumatoide, e di farmaci anti-HIV come lopinavir e ritonavir.

Lopinavir e Ritonavir sono farmaci antivirali che agiscono come inibitori delle proteasi, cioè inibiscono gli enzimi necessari alla maturazione del virus bloccandone il ciclo replicativo. Poiché quello che combattiamo è un virus, tra le tante opzioni l’utilizzo di questo tipo di antivirali sembrerebbe quella più logica.

Perchè utilizzare un’associazione di due farmaci anziché uno?

Sebbene entrambi siano inibitori delle proteasi, il Ritonavir viene sfruttato per la sua capacità di inibire il citocromo P450, un enzima epatico preposto al metabolismo e all’eliminazione di molte molecole. L’effetto del Ritonavir si traduce in una maggiore permanenza nell’organismo del Lopinavir e ciò consente di somministrarne una dose minore riducendone così gli effetti collaterali. L’associazione Ritonavir/Lopinavir viene impiegata con successo nell’ambito delle terapie anti-HIV.

Questa strada era già stata battuta durante l’epidemia di SARS dei primi anni duemila, tuttavia gli studi condotti in tale occasione sembravano presentare troppi fattori confondenti per poterne affermare con certezza l’utilità.

Nonostante i risultati incerti, a causa della grave emergenza sanitaria è stato necessario provare a sfruttare quest’arma. A partire dalla Cina è iniziata la sperimentazione della combinazione Lopinavir/Ritonavir nell’attuale guerra al Covid-19. Purtroppo però, dalla stessa Cina, sono arrivati i primi risultati non incoraggianti.

Uno studio condotto nell’ospedale Jin Yin-Tan di Wuhan e coordinato dal professor Bin Cao ha paragonato i miglioramenti clinici in due gruppi di pazienti sottoposti a diverso trattamento. Nel primo gruppo è stata osservata la risposta clinica al solo supporto delle funzioni vitali senza l’utilizzo di farmaci specifici, nel secondo, invece, è stata aggiunta la combinazione Lopinavir/Ritonavir. I risultati hanno mostrato che le differenze tra i due gruppi, soprattutto in considerazione degli effetti collaterali gastrointestinali che gli antivirali portano con sé, non sono risultate sufficientemente significative.

In particolare, lievi vantaggi della terapia con lopinavir/ritonavir riguardano i tempi medi di miglioramento clinico (15 giorni con lopinavir/ritonavir contro i 16 giorni della cura standard) e la riduzione della mortalità dopo 28 giorni (19,2% con lopinavir/ritonavir contro 25% con cura standard). Tuttavia, questi non sono accompagnati da variazioni della carica virale nei pazienti malati e vengono comunque ritenuti non sufficienti a definire l’efficacia della terapia rispetto al solo supporto di base.

Quindi è tutto da buttare?

In realtà no. I risultati descrivono pazienti con malattia avanzata in cui il decorso è aggravato da un importante quadro infiammatorio generalizzato. Ciò non toglie che questi farmaci potrebbero rivelarsi utili nelle fasi più precoci della malattia. Infatti, se si dimostrassero efficaci nel fermare la replicazione del virus, rallenterebbero l’evoluzione permettendo al sistema immunitario di avere una risposta più efficace.

Per questo motivo l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) ha rilasciato le linee guida per l’utilizzo off-label (cioè al di fuori della terapia del HIV) dell’associazione lopinavir/ritonavir. È stato stabilito, infatti, che i risultati degli studi effettuati su pazienti critici non siano trasferibili a coloro affetti da malattia lieve. È auspicabile, quindi, che ulteriori tentativi nell’utilizzo di questi farmaci abbiano esito positivo.

In un momento in cui tutto cambia rapidamente e le strategie terapeutiche vengono stabilite giornalmente sul campo, le certezze sono poche. Sappiamo però che una volta superata l’emergenza le ricerche non si dovranno fermare. Bisognerà giocare di anticipo se si vorrà riuscire a bloccare la malattia nella sua fase iniziale evitando che altre persone perdano la vita. Il tempo e lo studio ci diranno se tali farmaci, che hanno già permesso a milioni di persone di convivere con l’HIV, saranno al nostro fianco in questa battaglia.

Fonti