Un gruppo di ricerca dell’Università di Lexington ha scoperto un pattern di onde cerebrali registrato con la tecnica dell’elettroencefalografia che potrebbe predire il rischio di incorrere in un MCI (Mild cognitive impairment) nei successivi 5 anni.

AD e MCI

La malattia di Alzheimer rappresenta la più comune causa di demenza al mondo, arrivando a interessare circa il 4.4% della popolazione ultrasessantacinquenne. Il passaggio da normali funzioni cognitive a una franca demenza avviene solitamente attraverso una condizione definita di Mild cognitive impairment (o MCI), in cui le performance cognitive iniziano a essere alterate ma permettono ancora il mantenimento dell’autonomia. Sempre nella popolazione ultrasessantacinquenne il MCI interessa circa il 19% delle persone.

Le difficoltà nella diagnosi e soprattutto nella terapia della malattia di Alzheimer rendono necessario riconoscerne quanto prima l’esordio e intervenire il più precocemente possibile. Uno degli esami che permette di rilevare le prime alterazioni patologiche della malattia di Alzheimer è la PET, un esame di medicina nucleare che si avvale di un radiofarmaco per cercare le proteine responsabili della malattia. Si tratta tuttavia di un esame non sempre disponibile e che comporta l’utilizzo di radiazioni. Un’altra tecnica diagnostica utilizzata è il prelievo di liquor mediante la puntura lombare, un esame tuttavia invasivo.

Da qui la necessità di sviluppare nuove tecniche diagnostiche capaci di scovare alcuni segnali precoci di malattia, possibilmente coniugando sensibilità e specificità diagnostiche con minima invasività e ridotto costo.

Il gruppo di Y. Jiang, professoressa presso l’Università del Kentucky College of Medicine, ha quindi sottoposto 34 individui anziani volontari a un esame comunemente utilizzato per la diagnosi e il monitoraggio di diverse condizioni neurologiche, tra cui l’epilessia, il coma e le encefalopatie, ovvero l’elettroencefalografia (EEG). Questo tipo di indagine permette la valutazione dell’attività elettrica encefalica, misurando i potenziali neuronali postsinaptici, e mette in luce eventuali anomalie nella comunicazione interneuronale, come accade ad esempio durante una crisi epilettica.

Lo studio

Dei 34 soggetti sottoposti allo studio, 14 presentavano già una diagnosi di amnestic MCI (o aMCI), mentre 19 conservavano una riserva cognitiva normale (NC). Ciascuno di loro veniva annualmente sottoposto a valutazioni cognitive e cliniche complessive.

Lo studio consisteva in una registrazione EEG effettuata in contemporanea all’esecuzione del “Bluegrass working memory task”: in questo particolare test, della durata di circa 18 minuti, viene in un primo momento mostrata un’immagine campione e successivamente altre immagini in sequenza. Il compito dei partecipanti è quello di premere un pulsante nel momento in cui compare sullo schermo un’immagine identica all’immagine campione. (Fig. 1)

Fig. 1. Il test condotto nello studio, costitutito da una registrazione EEG eseguita durante un “Bluegrass working memory task”

I risultati

I ricercatori hanno quindi registrato il tracciato elettroencefalografico e le prestazioni mnemoniche dei 34 individui, valutando la loro precisione percentuale e i tempi di reazione, misurati in millisecondi. Le principali differenze riscontrate tra i due gruppi (pazienti con MCI e gruppo di controllo NC) erano relative ad una serie di onde a partenza dai lobi frontali, in particolare dell’emisfero sinistro, moderatamente ridotte nel gruppo con MCI, ma anche in alcuni soggetti del gruppo di controllo.

I 34 pazienti sono stati poi seguiti per un tempo medio di 5.2 anni, al termine del quale sono stati rivalutati sotto un profilo clinico e cognitivo, attraverso i medesimi test utilizzati in precedenza. Al termine del follow-up, 7 dei 19 partecipanti del gruppo di controllo avevano sviluppato un aMCI.

Il dato rilevante riscontrato è stato il seguente: le onde cerebrali frontali di questi 7 individui erano statisticamente identiche a quelle dei 14 pazienti che già presentavano un aMCI al momento del test, indicando quindi una forte correlazione tra questo pattern EEG e il rischio di insorgenza di un declino cognitivo (HR 1.47, 95%, CI 1.03-2.08).

A detta di Y. Jang, “si tratta di un pattern EEG molto specifico: se ce l’hai, converti precocemente, se non ce l’hai, non vai incontro alla patologia”.

Prospettive future

Questo studio rappresenta un importante progresso nell’ambito della diagnosi precoce delle demenze. Infatti, identificare le persone che possono già “essere sulla strada del deterioramento cognitivo” è importante poiché interventi come il miglioramento della salute cardiovascolare, l’incoraggiamento al quotidiano esercizio mentale e la gestione ottimale delle comorbidità possono aiutare a rallentare il declino cognitivo.

Quello proposto è un test veloce, relativamente poco costoso e non necessita di procedure invasive o macchinari ingombranti. Inoltre, essendo basato sul riconoscimento di immagini, non pone problemi di tipo linguistico.

Come sottolineato dagli autori, lo studio è però ancora troppo piccolo per poter introdurre questa tipologia di tecnica come standard di screening negli ambulatori di neurologia. Fondamentale sarà quindi il confronto tra questa metodica e i vari “gold standard” come l’analisi del liquor, o con i nuovi biomarcatori del sangue, che stanno dimostrando sempre di più la loro affidabilità.  Sono quindi necessari ulteriori lavori e trials per poter confermare, o smentire, ciò che il gruppo di Lexington ha riscontrato.

Autore Dott. Orlando Malanga | Revisore Dott. Simone Salemme

Fonti │ Journal of Alzheimer’s Disease, Dati Demenze

Fonti Immagini │Immagine in evidenza, Figura 1